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1 maggio 2012

Di Alberto in: Proposte

Le potenzialità della lirica moderna


In occasione dell’uscita della raccolta completa delle poesie di Franco Buffoni nella collana Oscar della Mondadori, ripubblico un articolo già edito, con alcuni aggiornamenti.


Che la lirica moderna, in sostanza a partire dalla svolta romantica, sia un’espressione delle tendenze narcisistiche della società è stato di recente ben argomentato da Guido Mazzoni nel suo Sulla poesia moderna (Il Mulino 2005). La tesi è di un’evidenza palmare, dato che l’io poetico, autobiografico o trascendentale, connotato empiricamente o pura flessione del Linguaggio, è comunque centrale in ogni sorta di costruzione letteraria che noi definiamo ‘lirica’, comprendendo ormai sotto questa dizione anche la poesia per musica e i tanti ibridi riscontrabili (poema in prosa o prosa lirica ecc.). Il problema di fondo è ovviamente quello del senso di questa scrittura, ovvero come questa scrittura tendenzialmente solipsistica può diventare patrimonio comune, condiviso in comunità più o meno definite, e comunque tale da rappresentare un’interpretazione significativa di ciò che chiamiamo realtà.

È chiaro che il ritiro del mandato sociale ai poeti, iniziato secondo Benjamin ai tempi di Baudelaire, è ormai totale, anche perché la società ha approntato diversivi validi alla lirica ‘colta’, a cominciare appunto dalle canzoni più o meno letterariamente elaborate, e ha oltretutto promulgato l’accettazione diffusa del vizio di scrivere versi: se, come dicono le statistiche, circa tre milioni di italiani hanno alcune o molte poesie nel cassetto, è evidente che non si può punire questa attività anche solo ironizzando su di essa, come ai tempi dei crepuscolari; d’altronde bastano i dati a far capire che si tratta di un vizio senza conseguenze pratiche, essendo le vendite di qualsiasi libro di versi in media inferiori alle cento copie, di solito quelle acquistate dall’autore per i suoi omaggi. Il narcisismo si ferma alla scrittura, è ben più difficile che spinga alla lettura.

Se però ci si ostina a credere che la poesia scritta abbia ancora un senso non esclusivamente personale, occorre andare a scavare in quei territori che si sono sempre collocati ai margini della corrente romantico-simbolista o anche avanguardistico-surrealista, in periferie che possono proporre oggettivazioni di tipo teatrale oppure epico, come per esempio nella Terra desolata. Eliot ha mostrato almeno due punti fondamentali per la poesia non meramente lirica del Novecento: da un lato la necessità che l’io venga ‘calmierato’, filtrato attraverso un noi che è incontro con il presente e con i modelli letterari (è il procedimento del correlativo oggettivo, che si attua a più livelli); dall’altro, che la poetica personale deve aspirare a una profondità, a essere significativa in rapporto a una lunga durata, che è prima di tutto quella della tradizione, da intendersi non come vincolo ma come forma di lettura della storia e del suo possibile senso.

Chi scrive poesia oggi dovrebbe, a mio avviso, tentare di rispondere a queste sfide, in modo diverso dal pieno modernismo di Eliot e però senza cadere nell’attuale tendenza all’anything goes, che, proprio perché non più significativa per la società, la poesia può accogliere più che mai facilmente. Il problema è leggere la storia in maniera soggettiva senza cadere nel soggettivismo, ma cercando, attraverso una forma riconoscibile, confrontabile con quelle acquisite, di oggettivare il proprio, ineliminabile punto di vista. Il quale, fra parentesi, non deve per forza essere eliminato: un aspetto del fondamentale saggio di Mazzoni che va precisato riguarda il suo ribadire la non significatività dell’esperienza del singolo di fronte alla storia, perché è plausibile che, appunto perché della storia qualcuno tenta di dare una sua lettura artistica, essa cambi di prospettiva (del resto Mazzoni stesso, citando Adorno, sostiene che le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti; ciò implica che le opere d’arte – o almeno quelle che riescono a diventare classiche – sono soggettività oggettivata, e non mera documentarietà).

Per uscire comunque dal campo delle astrazioni, occorrerà dire qualcosa di positivo su cosa può essere la poesia oggi, ovvero su come si può sostenere un progetto poetico che sia acquisizione di una conoscenza, sia pure ipotetica, e non mera riproposizione egotica del già noto. Uno dei piani su cui si gioca la partita è ancora quello del rapporto significante/significato, che sempre più appare difficilmente motivabile in un’ottica strutturalista, e che però solo in poesia trova una sua continua ri-lettura. Questo non può più portare agli sperimentalismi futuristi e poi surrealisti, ormai inevitabilmente ripetitivi, ma anche la forza di una deformazione espressionista appare adesso smorzata dalla complessità del nostro approccio ai linguaggi, essendo lo status comune quello di essere avvolti da un mistilinguismo di comunicazione necessaria e incessante: l’espressionismo ha bisogno di deformare ciò che è stabile, non ciò che è già di per sé instabile e deforme.

D’altra parte, non sembra approdare a grandi esiti neanche l’accettazione piena di questa situazione, che è quella implicita in tanta parte dell’attuale poesia ‘comunicativa’, ossia quella in cui la soggettività viene smorzata perché entra a far parte di una lirica appena al di sopra della prosa, modulata, spesso secondo il grande modello di Sereni, per essere un rovescio selettivo di un diarismo-biografismo viceversa aperto e non selettivo. Il mistilinguismo abbassato, la poesia verso la prosa (formula fortunata quanto generica), insomma la decantazione della soggettività che rimane entro i confini del qui e ora, è una via ben praticabile e amichevole di creare una comunità, ma rischia di dar luogo a una sorta di terapia di gruppo, di confessione raffinata, di elenchi di occasioni minori ancora concesse a chi non si aspetta molto altro dalla sua esistenza.

Non è certo nemmeno la sublimazione aulica una risposta opportuna, la restrizione del campo della poesia al sublime coatto, alla percezione di una forza intrinseca ai versi che, semmai, è sempre e soltanto stata una conquista formale di un significato, non l’imposizione di una forma aprioristicamente alta a ciò che appare solo come il portato di un ribellismo tardoromantico se non dannunziano. Queste risposte sono tutte all’interno della logica del narcisismo non finalizzato, e possono avere un senso oggi solo se coniugate a un rapporto forte e visibile con i mass-media, ovvero là dove la poesia diventa parte di un sistema spettacolare che ha ben altri e più efficaci elementi per attirare il grande pubblico.

Semmai, se si ritiene che la nostra forma del mondo stia diventando quella della rete a maglie irregolari, che si modifica istante per istante come il Web, che mostra a tutti ciò che avviene ovunque senza spiegare alcunché di quello che è in effetti avvenuto, allora la poesia potrebbe rispondere creando forme di conoscenza integrata, connettendo i linguaggi diversificati per ottenere un significato davvero ulteriore, e senza bisogno di esibizionismi espressionisti. Il problema è cosa connettere, cosa deve entrare in una poesia per far sì che sia una parte inclassificabile di un sistema viceversa sin troppo schematizzabile: fare della poesia una sorta di connessione tra conoscenza del mondo e ipotesi sul mondo, in cui l’io sia più che altro un sensore, capace però di chiedersi e di chiedere perché certi nessi tra eventi del singolo e  filamenti della rete (o porzioni del vuoto) sono significativi.

Questo vuol dire tornare verso l’oscurità? Direi piuttosto verso la difficoltà buona, quella di Eliot, quella di Baudelaire, quella di Dante. Il quale non a caso è il poeta che più di tutti ci appare oggi fuori del soggettivismo, perché la sua soggettività trasportata dall’io auctor all’io agens è comunque condizionata dalla necessità di comprendere persino quanto la scienza e la teologia dei suoi tempi non erano in grado di spiegare: solo dopo aver capito cosa sono le macchie lunari così come quello che avverrà nell’Italia del 1300 tra Papa e Imperatore, si può arrivare a vedere Dio. La grande poesia è sostenuta da un processo interno, che per Dante conduce a interpretare dal punto di vista del divino anche ciò che è umano: nessuno (o forse, su un altro piano, solo Lucrezio) aveva mai descritto poeticamente meglio di lui un fenomeno meramente fisico, come avviene nel Paradiso – “Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro, / movesi l’acqua in un ritondo vaso, / secondo ch’è percosso fuori o dentro”. Per arrivare a questa perfezione, che fa dell’osservare la fisica dei corpi la matrice di una versificazione che segue il ritmo stesso del fenomeno con il suo ritmo, bisogna concepire un’opera che giustifichi una connessione tra realtà e soprarealtà, alla quale pongono metaforicamente mano cielo e terra. Ora possiamo concepire e sostenere una poesia che fonda reale e virtuale, un processo che vada oltre la persuasione di una soggettività sconfitta e di una storia ridotta a sovrapposizione di immagini autoesplicative e perentorie.

 

Su molti degli aspetti sin qui citati mi sono soffermato di recente nel mio Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente (B. Mondadori 2011), in cui ho proposto numerose indicazioni per cominciare a guardare in modo più complesso fenomeni come quelli dell’inventio, dello stile e altri fondamentali nella realizzazione delle opere d’arte in genere, e poetiche in particolare. Ma, per soffermarci almeno su un caso evidente, vorrei segnalare che un adeguato esempio della praticabilità di quanto sin qui sostenuto è offerto dalla raccolta di Franco Buffoni Guerra (2005). Si noti già il titolo: “Guerra”, senza articoli né determinativi né indeterminativi, perché è la condizione in sé della guerra a essere oggetto della poesia di Buffoni. Una condizione che si evidenzia nella storia e attraverso la storia, ma che tocca poi gli ambiti della psicologia e della biologia, sempre comunque in una dimensione meta-fisica e però non trascendentale. Il problema, ci dice Buffoni nel percorso in quattordici sezioni o tappe della sua raccolta, non è quello di parlare soggettivamente della guerra (come nel modello per eccellenza in questo senso, quello ungarettiano), né di parlarne politicamente (come ha fatto, tra gli altri, il Fortini di Composita solvantur), ma di trovare una chiave interpretativa che consenta di far intuire quali sono i legami tra fondamenti della biologicità e pulsioni aggressive, storicamente diverse ma virtualmente sovrapponibili, in una dimensione che è nei fatti antiantropocentrica, e tuttavia non risulta iperoggettivata, quasi straniata in una percezione altra (gli insetti di Ted Hughes), bensì valorizzata in un senso naturalistico anziché umanistico.

Guerra di Buffoni è quindi un libro totalmente antielegiaco. Gli snodi concettualizzanti del percorso – perché, va ribadito, di un vero percorso si tratta – sono tali da legare indissolubilmente storia e catena biologica, senza residui: “Basta che le labbra scosti poco / Palus putredinis / Madre terra / E in breve tempo ingoi / Lance alabarde sangue carne ossa, / Macini impasti rigurgiti / Siepi con le bacche serpi e fidanzati / Nel trionfo della vita”. Dove gli appellativi antico-sacrali (“Madre terra”) e allusivo-dissacranti (“Palus putredinis”, con riferimento alla condizione di partenza al Laborintus sanguinetiano) sono solo una cifra distintiva, né ironica né assolutizzante, di quel che la Natura continua a fare, comunque in un “trionfo della vita” che è necessità del continuare, oltre la morte-distruzione del singolo. Il tema, evidentemente leopardiano, non è però preso come punto di arrivo, ma come constatazione, quasi di partenza: è posto non a caso a chiusura della terza sezione della raccolta, Rammendi in cotone arancione, quella che per prima colloca le constatazioni dell’ovvio dolore esistenziale (1. Profughe alla stazione) e dell’altrettanto ovvio sperimentare-formarsi del singolo (qui grazie alla positivissima camaraderiedegli eserciti, pura consonanza di animi e di corpi poi vòlta all’aggressione e al male: si veda 2. Carne di militare), in una dimensione più-che-storica, ma con il “Fantasma in carne e ossa della storia” che perseguita sin dall’infanzia l’io-poeta: il quale ora deve far emergere un legame tra gli eventi non significativi, come un rammendo fatto in fretta a una divisa prima della battaglia della Marna, e quelli che in qualche modo resistono, come la morte del galata incisa nel marmo o quella ricordata in un’iscrizione funebre del 500 a.C. ritrovata nel villaggio attico di Kalivia.

Sono i luoghi, i monumenti, le tracce degli eventi che parlano, non il poeta. Ma allora la funzione-finzione dell’io-lirico a quale esigenza corrisponde? Non a quella dell’autoriconoscimento, bensì a quella della connessione tra elementi in apparenza irrelati, e invece naturalmente da unirsi, in una tensione sinaptica: nella raccolta di Buffoni le constatazioni prevalgono sulle induzioni, solo che non si constata solo l’evidente, ma anche il legame creato nel testo, quasi esperimento verbale dei processi biologici. La constatazione può partire da eventi persino di cronaca (“Quinto errore della Sisley di Treviso”), oppure da notizie accertate more historico (“Ma colgo un proiettile scheggiato / Estratto dall’avambraccio destro / Di Basci Renato / Il quindici agosto del ’916 al Pasubio”), oppure da autobiografie altrui (segnatamente quella del padre, prigioniero per un lungo periodo durante la Seconda guerra mondiale), ma deve servire da fondamento per giungere a una sintesi che focalizza un aspetto solo indirettamente percepibile nell’evidenza: “E’ il troppo brutto / Che non si riesce a dire / Perché esistono tutte le parole / Ma sono lunghe e finisce / Che assorbono / Dei pezzi di dolore”.

Una delle sintesi superiori create durante il percorso è quella relativa alla perennità della Guerra non solo in quanto sperimentata dall’essere umano (“E sei sempre tu, hai quegli occhi nel ’43 / Li avevi nel ’17 / Li avevi a Solferino nel ’59…”: peraltro qui Buffoni si riferisce in particolare al disertore a colui che rimane ai margini della guerra “scarico della memoria”), ma in quanto necessità della biologicità. Anche senza ricorrere a Eibl-Eibesfeldt, è chiaro che la preminenza del soccombere nella lotta vitale deve essere riportata alla sua facilità naturale, senza infingimenti culturali perché è “norma […] Il morto insepolto la nuda terra il fuoco”. La cosmicità della guerra viene quindi dimostrata nell’ultima e decisiva sezione, Se mangiano carne. Qui, come un Leviatan, arriva presto in primo piano “il gigantesco squalo-balena maculato”, ma di esso non sono meno feroci le tartarughine, se diventano carnivore, o, magari involontariamente, i leoni marini, i coccodrilli, le “tigri a caccia di antilopi” ecc. Ma a questa premessa scientifico-etologica si connette la constatazione che “non ha infine che centomila anni / il pensiero astratto” e che recenti sono pure “i fondamenti neurologici della memoria”. La speranza illuministica di una riorganizzazione superiore della storia si scontra con la condizione biologica di pulsione a uccidere e a ripetere l’uccisione, che crea un rapporto di “vittima e carnefice” riconoscibile perennemente. Così, ancora ricordi personali e rievocazioni di eventi lontani – dall’antichità di Pirro Neottolemo, alla Prima e alla Seconda guerra mondiale, ecc. – precedono una conclusione del tutto consequenziale: la lapide di un giovanissimo soldato tedesco che riposa nel cimitero tedesco di Cassino può far parlare di strategie di battaglia o di ambrosia degli dei, ma non può far dimenticare la certezza che “Wolfgang Liebelt / 10.1.25 – 30.12.43” sta “Tra gli altri ventimilacinquantasei”.

La poesia per connessioni di Guerra è sostenuta da una metrica netta, spesso puntellata da versi canonici, specie endecasillabi dal ritmo martellato, giambico-anapestico, antievocativo. La non evocatività, e quindi la razionalizzazione implicita anche di quanto appare attualmente non conoscibile, sembra la cifra più forte dell’intera raccolta, quasi un poema filosofico in capitoli. Molto poco risulta non necessario (magari il troppo esplicito di Per il potere di sciogliere e legare), e comunque mai superfluo. Buffoni si colloca in una dimensione poetica che è per certi aspetti discendenza della tensione gnoseologica più forte della linea metafisica, dal Montale di certe Occasioni (Nuove stanze) al Sereni degli Strumenti umani (non a caso qui citato per Amsterdam), ma senza la sua musicalità più blanda, che ha dato piuttosto il via al filone della poesia narrativizzata recente. Semmai, i contatti più forti si potrebbero trovare con il Giampiero Neri di Teatro naturale, che peraltro punta sulla concentrazione epigrammatica spinta a volte sino ai limiti del surrealismo. Ma è chiaro che tra i modelli di Buffoni sono ben presenti quelli anglosassoni da lui studiati; in ogni caso, se si dovesse instaurare un confronto di metodo e di esiti, si sarebbe tentati di fare soprattutto il nome di Enzensberger con il suo Affondamento del Titanic. Come lì un evento-simbolo, qui uno stato-sostrato antropologico, ciò che è Guerra, viene ricostruito per via poetica, diventando dicibile attraverso la storia ma anche al di sopra o al di sotto della storia.

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