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1 settembre 2012

Di Alberto in: Proposte

Un breve dialogo sull’”inventio”


A due anni dalla scomparsa del critico Francesco Orlando, un ricordo e un’indicazione sui lavori da lui progettati.

 

Ho incontrato per l’ultima volta Francesco Orlando nel maggio del 2010. Dagli anni Ottanta, quando avevo partecipato alle sue lezioni e poi a molti seminari-discussioni a casa sua, in Lungarno Pacinotti a Pisa, le occasioni per parlarci erano state diverse, specie quando avevamo trovato un territorio comune di ricerca, quello delle potenzialità e dei limiti della critica tematica. Io avevo ovviamente tenuto conto dell’impianto complessivo degli Oggetti desueti, e anche di quanto sapevo, attraverso le lezioni e i dialoghi, del progettato libro sul soprannaturale; tuttavia, nella mia indagine sulla rappresentazione della Seconda guerra mondiale nella narrativa italiana, europea ed extraeuropea (Romanzi di Finisterre, 2000), avevo sposato un’idea di realismo con la quale si tornava a discutere delle posizioni di Lukács, Benjamin e Adorno, Auerbach e dei critici postmodernisti, e non adottavo una griglia organizzatrice, né miravo a realizzare un albero semantico di matrice freudiano-strutturalista. Credo che Francesco non abbia apprezzato questa direzione della mia ricerca, benché parecchi anni dopo lui pure sia tornato, come molti, a interrogarsi su quei problemi, complice una rilettura attenta soprattutto di Mimesis.

Anche per questo motivo le nostre frequentazioni, nel primo decennio del Duemila, sono state tutto sommato sporadiche. La naturale e insieme curatissima cortesia con cui Francesco si rivolgeva a tutti, ma in particolare ai colleghi ed ex-allievi rimasti amici, ci consentiva di salutarci a ogni incontro, più o meno casuale, come se ci fossimo lasciati poche ore prima; tuttavia, a parte qualche commento sui suoi libri che via via venivano pubblicati, non abbiamo avuto confronti intellettuali significativi.

Dal 2008-2009, però, io ho cominciato a interessarmi di nuovo di questioni di teoria della letteratura e di poetica, sulla scorta delle tendenze che le scienze cognitive facevano intravedere e con l’intento di riconsiderare concetti fondamentali come quelli di stile e di creatività-ispirazione o inventio in senso postromantico. Ho pubblicato un saggio molto condensato (Poesia e ispirazione, 2009), che nelle mie intenzioni doveva costituire una sorta di ouverture di uno studio più ampio, sia teorico che applicativo, da collocare nell’ambito della cosiddetta poetica cognitiva (o Cognitive poetics, tenendo conto della sua diffusione nei paesi di lingua anglosassone). La discussione sulle teorie freudiane della letteratura è lì ancora ridotto, ma ovviamente sapevo bene che anche quest’aspetto sarebbe stato imprescindibile (e qualcosa ho cominciato a dirne in un libro più recente, Poetiche della creatività, 2011).

Ho subito pensato che un nuovo confronto con Francesco sarebbe stato per me molto significativo, indipendentemente dalle differenze che già intravedevo fra le sue posizioni più note e le mie, ancora in incubazione. Aspettai vari mesi a contattarlo, e poi un’occasione mi spinse a farlo: nei primi mesi del 2010 presentammo assieme un libro appena uscito e, alla fine, io gli parlai dei miei nuovi interessi e gli dissi che gli avrei fatto avere una copia del mio piccolo saggio, se gli avesse fatto piacere. Francesco sembrò davvero interessato all’argomento e anche alla nuova occasione di incontro, e mi propose di andarlo a trovare in un periodo tranquillo, cioè maggio.

Andai nella sua nuova abitazione di via del Borghetto, e naturalmente non potei far a meno di notare la nuova disposizione dei libri e dei dischi in vinile che ricordavo collocati nella precedente. Subito gli offrii uno spunto per dire qualcosa della nuova organizzazione, che sapevo quanto potesse risultare rivelatrice nel suo caso. Ma Francesco mi disse ben presto che la considerava provvisoria e anche un po’ troppo caotica per la sua sensibilità: si consolava pensando che, a breve, avrebbe avuto una nuova sistemazione sui Lungarni.

Intanto era molto felice per la pubblicazione della sua prima prova narrativa, della quale avevo avuto varie anticipazioni ma che non avevo potuto discutere con lui. L’essere riuscito a pubblicarla con Einaudi lo riempiva di una gioia che mi sembrò diretta e semplice. Forse era la sua condizione psicologica complessiva che si stava già riassestando, in vista dei tanti cambiamenti che lo aspettavano, a cominciare dalla lontananza dall’insegnamento.

Io gli porsi Poesia e ispirazione dopo che si era ristabilita un’affinità che mi rimandava ai tempi degli studi. Francesco ricordò di passaggio un particolare rimasto impresso pure a me, quando un incontro-seminario s’incentrò su una mia proposta di correzione nell’ordine delle categorie del soprannaturale che lui stava organizzando. Non so se ne ha mai tenuto conto, ma certo la questione doveva essergli sembrata di un certo rilievo, se ancora la ricordava con la solita, indefettibile precisione. Io però gli dissi che mi sembrava arrivato il momento di sondare nuovi ambiti di indagine, e che una nuova stagione di elaborazione teorica e metodologica fosse necessaria, per tornare a discutere dei grandi temi e problemi della creazione letteraria e artistica senza dover accettare a priori i vincoli che le teorizzazioni forti, quelle strutturaliste-semiotiche nelle loro tante sfumature, avevano imposto.

A sorpresa, Francesco non si mise ad analizzare o a contestare quest’ultimo assunto, ma mi informò che, fra i suoi progetti, c’era quello di esaminare l’inventio nella sua effettiva costituzione. Convenimmo che la retorica aveva fornito una strumentazione di base fondamentale per l’elocutio, e la narratologia (in senso lato) per la dispositio (anche se sul concetto di ‘organizzazione narrativa’ alcuni distinguo cominciammo a farli). Ma sulla natura e le forme dell’inventio, disse Francesco, è ancora tutto da fare. Io risposi che proprio in questa direzione volevo muovermi, tenendo conto ovviamente dei tanti saggi che potevano fornirci suggerimenti in merito (citai, mi pare, Empson a titolo di esempio), ma di sicuro evitando di ridurre i rapporti autore-creatività-testo (o meglio, in questa prospettiva, opera) a un paradigma deterministico.

Francesco aggiunse che, a suo parere, era prima di tutto fondamentale trovare, a livello testuale, alcune serie di collegamenti semantici imprevisti, ossia non giustificabili sul piano logico e fattuale. Probabilmente pensava ad altri segnali di un ritorno del represso, paragonabili appunto alle figure retoriche non esplicitabili grazie a chiavi di lettura razionalistiche, ma non approfondì la questione. Io evitai di domandargli altro in merito, ma gli dissi che effettivamente anche secondo me il problema dell’inventività metaforica si poneva nei termini di un nuovo blending, per usare un termine caro agli scienziati e ai linguisti di matrice cognitiva. Il problema è quello di capire fino a che punto questa metaforicità è intrinseca al linguaggio stesso, come sostiene George Lakoff con numerosi altri studiosi statunitensi; in ogni caso, ritenevo che la mera analisi linguistica non fosse sufficiente a cogliere tutti gli aspetti fondamentali e addirittura fondativi di un’opera letteraria, e che si dovesse tornare a riflettere, in una prospettiva post-saussuriana, sul concetto di stile, non mero scarto da un’ipotetica norma, né mero insieme di tratti formali, bensì attivo interfaccia fra mondo interiore e mondo esterno, in tutti i loro aspetti.

Francesco ascoltò con interesse questi primi accenni, sebbene ritornasse poi a indicarmi la necessità di sistematizzare le singole intuizioni: lui pensava a un lavoro sull’inventio che avrebbe dovuto ancora una volta produrre una griglia interpretativa, partendo da casi appunto di ‘connessioni indebite’ tra ambiti semantici non contigui. Naturalmente, quando lui avrebbe avuto un po’ di tempo (prevedeva molti impegni pratici, anche per le presentazioni di Doppia seduzione), ci saremmo risentiti. Purtroppo non è accaduto e non potrà più accadere. Però quest’ultimo dialogo con Francesco, durante il quale parlavamo collocandoci di nuovo su territori limitrofi, continuerà a darmi uno stimolo a proseguire su una strada che, per ora, sembra avere ben pochi praticanti in Italia.

Alberto Casadei


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