Nessun commento »

1 aprile 2013

Di Alberto in: Proposte

Sul grande romanzo italiano


Sono usciti gli Atti del Convegno Negli archivi, per le strade, tenutosi a Toronto nel maggio 2010 (curatore è Luca Somigli, casa editrice Aracne, Roma 2013). Presentiamo l’inizio del contributo di Alberto Casadei sul tema del ‘Grande romanzo italiano’ nel secondo Novecento.

 

1. Esaminare la questione del ‘Grande romanzo italiano’ non significa riproporre, provincialmente, un problema specifico di altre tradizioni letterarie, come quella statunitense. Significa invece, in primo luogo, andare alla ricerca di nuove prospettive da cui guardare la nostra narrativa, specie quella posteriore al 1945, seguendo un percorso storico ma non passivamente storicista. In effetti, le interpretazioni basate su resoconti più o meno dettagliati dei contesti socio-culturali, nonché sulle indicazioni ricavabili dalle poetiche esplicite o implicite di autori o movimenti, risultano ormai insufficienti a coprire la gamma di valori simbolici che singole opere (modelli sommi: Guerra e pace e l’Ulisse) o serie con protagonisti identici o collegati fra loro (i cicli da Balzac in poi) generano, con un’espansione reticolare (e non causale-lineare), nell’immaginario collettivo: valori che vanno tenuti tutti in considerazione per delineare correttamente il campo di forze letterario e culturale in genere. In altre parole, la ricerca che intraprenderemo servirà a valutare aspetti strettamente contenutistici (di cosa potrebbe o dovrebbe parlare un ‘grande’ romanzo, per rappresentare l’Italia nei suoi tratti caratterizzanti?), altri formali (quali stili possono essere impiegati, per ottenere un successo socialmente significativo?), ma serve anche a segnalare i limiti di una disamina storico-critica che non si ponga l’obiettivo di una sintesi olistica.

Per cominciare, vanno poste alcune delimitazioni territoriali, arbitrarie ma inevitabili. Il Grande romanzo italiano che andiamo a cercare è un’opera di narrativa che ambisce a delineare una fase più o meno lunga della nostra storia nazionale, senza però nascondere le divisioni culturali regionali (che anzi ne costituiscono un humus indispensabile), e che assume un punto di vista tendenzialmente epico, persino quando le componenti soggettivo-autobiografiche del protagonista o del narratore risultino evidenti. La ricerca sarà limitata al periodo dal secondo dopoguerra a oggi, quando la nazione italiana è rinata in nuova forma e con una Costituzione finalmente democratica, e quando la fase che va dall’Unità al Ventennio risulta conclusa, purtroppo dopo la drammaticità dei due anni più neri della nostra storia, quelli della guerra civile.

Ci dovremo poi porre alcuni vincoli metodologici. Per esempio, l’esame delle opere non potrà non tener conto anche del loro impatto sociale, eventualmente stabilito in modo comparativo (rispetto a film, serial televisivi, nonché poesie o canzoni); le considerazioni stilistiche non saranno poi finalizzate a un giudizio di valore definitivo, sulla scorta di una poetica implicita: al di là delle preminenze assolute accordate dalla critica, il problema che qui ci si porrà è quello di capire se romanzi o narrazioni sicuramente significativi hanno davvero trovato una collocazione nell’immaginario, e se hanno in qualche modo rappresentato personaggi e vicende che risultino indispensabili nella definizione della nazione italiana e del nostro carattere.

Va però subito sottolineato che proprio quest’ultimo obiettivo risulta forse il più difficile da raggiungere, perché la vaghezza e addirittura l’inappropriatezza di termini come ‘carattere’, ‘nazione’ ecc. emergono ora sia dalle prospettive euristiche e storiografiche, sia dalle concrete analisi dei romanzi attuali, che risentono, a rimanere alle cose evidenti e condivise, dell’effetto globalizzazione e di quello, ancora relativo ma in costante crescita anche in Italia, dell’ibridazione. Tuttavia, a fronte di questi macrofenomeni, sociologicamente se ne possono porre in evidenza altri a volte ancora più significativi in termini di visibilità, per esempio il recupero di culture regionali (compresi i dialetti) non come enzimi di quella nazionale ma in diretta opposizione, quasi sempre di tipo conservatore, alle aperture e alle mescidanze. Se si adotta il punto di vista letterario, è notevole che l’esaltazione nostalgico-difensiva di valori locali di lunga durata (effettivi o presunti) non abbia prodotto per ora alcun risultato narrativo di largo impatto, mentre le ‘scritture migranti’ stanno cominciando a rivelarsi ricche di potenzialità quanto a vicende e modi del raccontare. In ogni caso, la problematicità dell’individuazione dei caratteri nazionali tende ad aumentare.

 

2. Alcuni sondaggi preliminari devono riguardare alcune idées reçues, persino quando di nobile paternità. In effetti, le osservazioni sui caratteri nazionali dipendono in buona parte dalle tipologie romantiche, a cominciare dalle macro-opposizioni ‘popoli settentrionali’ vs ‘popoli meridionali’, peraltro variabili quanto a polarità positiva e negativa. È indubbio che opposizioni di questo tipo condizionino le valutazioni persino di grandi intellettuali, come la M.me de Staël della Corinne e il Leopardi del Discorso sopra lo stato presente del costume degl’italiani. Al di là delle necessarie interpretazioni storicizzanti, resta il fatto che le osservazioni leopardiane più significative ancora oggi sono quelle legate all’habitus psicologico-mentale di tutte le classi sociali italiane, disingannate e ciniche, e quelle che segnalano la frammentazione in comportamenti e usi che non costituiscono un costume nazionale, semmai da costruire attraverso un’educazione morale e civile pensata e condotta dalle élites intellettuali.

Questo è un punto di partenza non viziato da presupposti in fondo ancora razziali o comunque pre-razionali. Ciò che il letterato, e in specie il narratore, può fare è esporre in azione le conseguenze di comportamenti che non riguardano solo l’astuzia, l’opportunismo, l’infedeltà ai patti e ai valori da condividere o, dall’altra parte, il buon cuore, la disponibilità al perdono (o al compromesso) ecc., bensì le motivazioni più profonde di queste propensioni, a cominciare dal rapporto conflittuale con l’organizzazione dello Stato a tutti i livelli. Da Verga a Pirandello a Gadda a Lampedusa: l’evidenza che emerge da molti dei nostri maggiori romanzieri, tendenzialmente conservatori, è quella dell’innaturalezza di un apparato organizzativo-burocratico sentito come inutile, farraginoso, imposto dall’esterno, eppure inevitabile nel processo di unificazione.

Ma la letteratura aveva proposto, prima e subito dopo il 1861, ben altri ideali, per un’Italia che si riteneva soprattutto depositaria di valori culturali di altissima ascendenza: lo stesso Leopardi (da All’Italia alla Ginestra) e il primo vate, Carducci, si collocano in questa prospettiva, sia pure con ben diversa profondità di motivazioni. E in fondo, l’idea di un letterato che possa guidare o formare l’Italia continua a essere presente nel Novecento, per esempio sia nel modello dannunziano, poi surrogato da quello ben più concreto incarnato dal Mussolini proto-fascista (e in parte ancora futurista), sia in quello pasoliniano, erede populista della lezione gramsciana. Cosicché sempre in subordine sono rimasti i tentativi di comprensione più raffinata delle manchevolezze sociali e dei possibili destini nazionali, come quelli che da Gobetti arrivano, con una coloritura esistenzialista (ma il verso “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” è, nel 1925, un’implicita dichiarazione di antifascismo), al Montale degli Ossi e poi a quello azionista dell’immediato dopoguerra – ben interpretabile, non a caso, attraverso vari racconti (come Il colpevole) e pezzi giornalistici. Ma in seguito Montale sceglie la strada del commento ironico-satirico alle storture della storia, mentre gli sforzi di comprensione dei nuovi e sempre più diffusi (anche inconsciamente) imperativi della società del boom economico sono quelli del Sereni degli Strumenti umani.

Va comunque anche qui sottolineato che alcuni elementi essenziali dell’italianità non folkloristica sono stati enucleati, specie tra gli anni Venti e i primi anni Sessanta, in testi poetici piuttosto che in opere narrative: e la successiva emarginazione della poesia di tipo civile (e in generale della lirica tradizionale) a favore della maggiore immediatezza dei testi per musica non elide il fatto che, nell’immaginario nazionale, hanno continuato a incidersi immagini e slogan sintetizzati appunto in canzoni (da quelle dei primi cantautori, come Guccini, De André, Gaber, a quelle recenti o recentissime di Fossati, Vasco Rossi, Ligabue, per arrivare a Elio e le Storie tese o ai 99 Posse).

Anche per questa via, diciamo socio-simbolica, si conferma uno degli aspetti di debolezza della nostra narrativa, che però non è forse da considerare in re, quanto nella composizione del pubblico possibile. Potrà sembrare drastico, ma si può confermare da più angolature che l’eccesso di pretese di sublimità nella scrittura narrativa ha portato a considerare un modello plausibile, e non una grandiosa eccezione (come in casi analoghi è accaduto nelle letterature straniere), il pluristilismo gaddiano, forse indebitamente ricongiunto da Contini addirittura a quello del nostro autore sommo – e in fondo primo grande narratore di italianità. Ciò ha d’altra parte spinto a deprezzare le scritture ‘semplici’, solo di recente rivalutate con forza (in specie da Mengaldo e dalla sua scuola), e però entrate nei canoni scolastici in virtù dei loro contenuti fortemente morali (è il caso di Primo Levi testimone e saggista). E ancora più hanno dovuto attendere un giusto riconoscimento scrittori poco inquadrabili in precise categorie, come Elsa Morante e Beppe Fenoglio, peraltro raramente introdotti fra quelli da leggere durante la formazione scolastica.

Insomma, com’era prevedibile a monte della ricerca del possibile Grande romanzo italiano si collocano ostacoli di vario tipo. Per evitarli e insieme per poter valutare comparativamente i caratteri intrinseci delle opere più rappresentative per questa indagine, si possono enunciare, come aspetti da considerare costantemente e sinergicamente:

la capacità di delineare personaggi a tutto tondo che, con le loro vicende, siano portatori non soltanto di una psicologia bensì di una cognitività sociale, cioè di una forza relazionale e di una conoscenza condivisa, interpretata e non solo ‘descritta’ (in senso lukácsiano) dall’autore;

la scelta di una stilizzazione che, al di là delle gamme più alte e più basse, riesca a riflettere nel tono medio una visione del mondo (e quindi un pensiero prima di un linguaggio) che esprima un’ampia gamma di conoscenze non scontate;

l’efficacia di un’opera nel creare un pubblico concreto (e non solo, narratologicamente, implicito) disposto a condividere una rappresentazione sociale italiana spogliata degli strati superficiali e capace di ricondurre i singoli casi a una condizione comune, secondo procedure di tipo epico.

Per costruire una micro-storia non esclusivamente soggettiva dell’evoluzione della nostra narrativa del secondo dopoguerra, si eseguirà quindi un’analisi critica mirata, cioè finalizzata a individuare i soli caratteri dominanti, in rapporto ai parametri appena indicati, di vari romanzi che possano essere considerati tentativi di ‘grande’ affresco italiano.


* Lo stimolo a questo lavoro è venuto da una discussione tenutasi a Varsavia, nell’ambito del Convegno Fiction, faction, reality (9-10 novembre 2009). In quell’occasione Remo Ceserani segnalò l’opportunità di riflettere sull’esistenza o meno di un ‘Grande romanzo italiano’, concentrando poi l’attenzione sul recente Patria 1978-2008 di Enrico Deaglio. Sulla questione si era già acceso un dibattito all’inizio del 2004, con interventi, fra gli altri, di Mauro Covacich e Giulio Mozzi, in particolare sull’“Espresso” e durante la trasmissione radiofonica “Fahrenheit” (27 gennaio 2004). A parte questi spunti o altri ricavabili dai vari blog letterari, a monte della presente indagine stanno i numerosi saggi che hanno esaminato opere di narrativa in rapporto alla formazione o alla storia della nazione italiana: oltre a Bollati 1983, sono stati fondamentali Berardinelli 1998, Bodei 1998, Raimondi 1998; più specificamente, Asor Rosa 1997 e 2002, Tellini 1998, Jossa 2006; poche ma precise pagine si trovano nel saggio di Romano Luperini Letteratura e identità nazionale: la parabola novecentesca (in Luperini-Brogi 2004, pp. 7-33). Molto utile, da ultimo, il volume miscellaneo curato da Matteo Di Gesù (2009), nel quale è reperibile un ampio e argomentato Percorso bibliografico. Sui problemi del romanzo italiano del Novecento, oltre ai classici lavori di Debenedetti, Contini e, più di recente, Guglielmi 1998, Mengaldo 1999 e Baldacci 2000, vanno citati, per la situazione contemporanea, almeno Simonetti 2006 e 2008, Donnarumma e altri 2008; per ulteriori analisi e per un regesto bibliografico si vedano anche Casadei 2000 e 2007, dove si troveranno varie integrazioni al discorso qui presentato. Segnaliamo che altri importanti contributi, in particolare miscellanei o su alcuni autori esaminati più a lungo, vengono indicati in Bibliografia.

[1] Oltre agli studi indicati nella nota iniziale, si veda da ultimo Patriarca 2010. Sulla questione identitaria, preziose indicazioni in Bauman 2003 e Remotti 2010.

[2] Per un’interpretazione dell’incompiuto saggio leopardiano, si veda l’edizione curata da Rigoni, Dondero e Melchiori (1998), nonché il saggio di A. Sole in Di Gesù (2009), pp. 189-220. Sui miti fondativi della nazione italiana, cfr. Galli della Loggia 1998, Banti 2000 e, per una sintesi delle interpretazioni (spesso fortemente divaricate), Riall 2007.

[3] Si vedano almeno Mengaldo 1994 (fondamentale per l’individuazione della cifra stilistica dei nostri principali narratori novecenteschi), Testa 1997.

[4] Sulla questione del Canone della narrativa italiana del Novecento, e in particolare dei programmi scolastici che da esso dovrebbero derivare (ma decisioni definitive mancano ormai da decenni), si vedano almeno Merola 2000 e Olivieri 2001. Considerazioni ulteriori si ricavano da Luperini 2005 (specie pp. 67 sgg.) e Antonelli 2006.

[5] L’impostazione metodologica qui seguita mira a ottenere dati significativi e comparabili, non certo a fornire analisi esaustive o valutazioni assolute. Si farà riferimento (a testo o in Bibliografia) alle interpretazioni più ampie o recenti delle opere che verranno prese in esame, così come ai sondaggi sociologici più raffinati, per non legare l’analisi dell’impatto sul pubblico al solo parametro delle statistiche di vendita (cfr. almeno Spinazzola 2005). Necessario risulterà poi il confronto interdisciplinare sugli effetti generati nell’immaginario collettivo da altre forme di rappresentazione dell’‘italianità’ (a cominciare dai film e dai serial e dai reality-show televisivi): con esso si toccherà il problema attuale del ‘realismo’ letterario, per il quale mi permetto di rinviare a Casadei 2000 e 2007, anche per altra bibliografia.


Rispondi