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1 ottobre 2013

Di Alberto in: Discussioni

Cinque domande sulla critica


Sul numero 65-66 di «Allegoria» è uscita un’inchiesta sulla critica letteraria a cura di Gilda Policastro e Emanuele Zinato. I curatori hanno intervistato quindici critici letterari della generazione che ha fra i trenta e i cinquant’anni. Le seguenti risposte di Alberto Casadei sono state ripubblicate anche su «Le parole e le cose».

1. La critica militante ha comportato, sin dai suoi esordi, decise scelte di campo e una dichiarata parzialità. Anche nell’attuale eclettismo delle teorie e dei metodi ritenete le scelte di campo un momento inevitabile nell’esercizio critico?

Sono convinto che un critico, in qualunque periodo storico-culturale operi, debba prima di tutto riconoscere dei valori che gli sembrino significativi in rapporto al passato e al presente, e che possano durare anche per le generazioni future. La correttezza sta, in primo luogo, nel difendere con coerenza i tratti che, sulla base della sua esperienza e della sua posizione nel campo di forze letterario, il critico considera importanti in un’opera: ciò vale tanto per quelle canonizzate quanto per quelle appena uscite.

Non credo quindi che si debba essere per forza manichei: la difesa di un valore dovrebbe riguardare, per esempio, Tolstoj quanto DeLillo, se si considerano questi due narratori altamente rappresentativi della loro epoca. Si dovrebbe evitare di misconoscere valori evidenti solo perché non li si ritiene adeguati sulla base di poetiche precostituite: magari io amo Proust più di Joyce o di Mann, ma non mi posso permettere di disconoscere l’importanza e la specificità dei loro modelli di letteratura. Posso invece essere certo che, alla distanza, un modello vince su un altro: è il caso di Dante, per secoli perdente in un confronto (improprio) con Petrarca, ma adesso considerato decisamente più significativo per la sua capacità di immaginare e rappresentare una realtà ben più complessa rispetto alla somma dei suoi singoli addendi, mentre gli aspetti psicologici e stilistici del Canzoniere sono del tutto riassorbiti e ridotti a un territorio circoscritto nell’immaginario della lirica moderna.

Il critico deve essere fedele a questo tipo di militanza: non quella di chi sta in uno schieramento ma quella di chi va in missione per (ri)scoprire aspetti fondamentali del fare letteratura nella sua epoca e per la sua epoca. L’eclettismo è però da evitare: e ci si riesce se si hanno chiari alcuni obiettivi. Il primo dovrebbe essere la difesa di opere che, nell’attuale ciclo di esplosioni di casi-del-momento seguite da un oblio totale dei medesimi, il critico ritiene che siano degne di essere rilette e reinterpretate quando saranno fuori moda.

2. L’altra caratteristica della critica storica è il senso di appartenenza ad una “scuola” entro cui la trasmissione dei saperi e delle competenze passasse attraverso il riferimento a comuni “maestri”. Ritenete ancora valida e attuale tale pratica? E, soprattutto, qual è il vostro atteggiamento nei confronti dei maestri e dei padri? Oggi, tra i due estremi, c’è più rimozione o angoscia dell’influenza?

Credo che una posizione tardivamente freudiana (l’aggettivo ha valenza metonimica) sul rapporto padri-figli o maestri-discepoli vada definitivamente superata, non perché non esistano conflitti generazionali, angosce dell’influenza ecc., ma perché su questi meccanismi dell’inconscio sappiamo ormai molto e rischiamo di esibirli come giustificazioni o spiegazioni di fenomeni che sono altri o di altro tipo. (È quello che avviene, in un altro campo, quando qualcuno continua a invocare la nostra inesperienza come condizione ineliminabile, usando categorie benjaminiane in modo ormai pedissequo e senza considerare quanto del presente ci sfugge solo perché non si osa guardarlo in faccia per quello che è).

Il rapporto con la tradizione è una necessità, non una costrizione. L’importante è sapere quali aspetti possiamo rinnovare per andare comunque oltre il passato, uscendo dalla concezione monumentale della storia. I maestri, ora, non sono i depositari di un sapere stratificato o, nei casi peggiori, accumulato: ciascuno può conoscere tantissimo senza bisogno di maestri, bastano internet e le tecniche di apprendimento reticolare e libero anziché lineare e gerarchizzato.

Ma quello che i veri maestri possono ancora insegnare è perché, per loro, determinate opere sono fondamentali, al di là della collocazione in un’asettica sequenza cronologica. La storia della tradizione si deve coniugare con la capacità di interpretare gli aspetti cognitivi nascosti nelle opere di lunga durata che chiamiamo classici: il mondo dell’aldilà dantesco non è solo la sintesi di nozioni già conosciute, ma è l’espressione di una visione plastica della realtà, come notava Eliot. Acquisita una nozione fondamentale come questa, adesso dobbiamo fare altri passi e notare, per esempio, che la creazione del Paradiso è il frutto di uno sforzo sulle potenzialità del pensiero e dello stile, che corrisponde a molte prerogative dell’attività cognitiva profonda, prerazionale, così come adesso cominciamo a concepirla: la plasticità è frutto di un’elaborazione che ora possiamo indagare meglio.

Intuiamo insomma nuovi motivi per cogliere la sublimità dell’ultima cantica, già in qualche modo accertata a livello linguistico (e certo tale da far capire perché Commedia non poteva essere il titolo generale dell’opera), ma ancora da verificare in tutte le sue potenzialità appunto di pensiero. Ecco, se non avessimo avuto maestri come Eliot, o Auerbach, o Contini ecc., che ci hanno fatto apprezzare aspetti fondativi del poema dantesco in linea con il gusto e la sensibilità novecentesche, non potremmo adesso cercare nuove vie per trovare ulteriori motivazioni della sua grandezza.

3. Come si coniuga per un critico accademico lo studio scientifico (e dunque, essenzialmente, la valorizzazione del canone e della tradizione) con la militanza e lo sguardo al presente? Possono applicarsi all’attualità letteraria gli stessi criteri e metodi validi per testi tradizionali e già canonizzati? O, altrimenti, in quale prospettiva ideale si inquadra per voi il presente, e come scegliete gli oggetti della vostra attività critica?

Ho in parte già risposto in precedenza, ma specifico che, a livello astratto, non ci dovrebbe essere nessuna differenza fra l’interpretazione di un classico e quella di un’opera appena uscita. (Discorso diverso è quello della maggiore o minore dignità di impegno scientifico, filologico, erudito dedicato a un testo piuttosto che a un altro: varrebbero qui alcune bellissime considerazioni dell’Auerbach di Filologia della letteratura mondialesu come individuare un argomento degno di studio).

Naturalmente però sappiamo tutti che, nella valutazione di un testo recente, valgono una serie di componenti “circostanziate”, che toccano la configurazione del campo di forze letterario: prestigio dell’autore, importanza della casa editrice, sostegno di uno o più critici autorevoli, successo di pubblico, presenza in internet (dai blog ai social network ecc.). Si può uscire da questi presupposti quando si valuta un’opera? Molto spesso no, a meno di non entrare in uno spazio sufficientemente libero di discussione, la quale però, per avere un’efficacia, dovrebbe poi contare su un pubblico esperto e dinamico pronto a recepirne gli esiti. In Italia, questo tipo di pubblico è quanto mai disgregato e ciò produce micropoteri nella valutazione del presente, che si riflettono per esempio nella geografia dei gruppi forti e nella scarsa importanza dei premi letterari (pensiamo a cosa vuol dire vincere un premio Pulitzer o, invece, un premio Streghello).

Il mio obiettivo sarebbe quello di poter dialogare con continuità e poi, per sintetizzare le valutazioni mie e di altri critici o esperti, di arrivare a un confronto specifico. Qualcosa in questo senso sto già facendo, con tanti altri, per le Classifiche di qualità e per il premio «Dedalus», ora collegati a pordenonelegge. Ma ancora siamo lontani da esiti che abbiano un’evidenza condivisa: solo continuando e migliorando su questa strada si potrà arrivare a letture del presente che siano credibili e, nel contempo, demistificabili.

4. Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?

Innanzitutto, non parlerei ancora di dominio assoluto. La rete è un mezzo in fase iniziale, e in sostanza per ora ha principalmente potenziato le modalità di diffusione delle informazioni, permettendo l’aggregazione di gruppi più o meno coesi, per esempio per discutere di opere di attualità o addirittura in progress. È evidente che alcune forme di attenzione ai testi, tipiche della cultura “lenta”, umanistico-classicista, sono definitivamente scomparse dall’orizzonte di chi considera prioritario il continuo modificarsi delle pagine web. E certo il critico più autorevole nell’ambito della rete è chi si presenta assiduamente, interviene su tutto, propone posizioni estreme per suscitare reazioni immediate.

È indiscutibile che, al momento, molti dibattiti significativi si svolgono in rete, o al limite nei blog dei quotidiani on-line. Però ci potremmo domandare: di tutti questi dibattiti, quali hanno avuto una durata non effimera? E di quali sentiremmo adesso il bisogno di tornare a leggere i punti essenziali? Il problema non è tanto quello di conquistare un qualche momento di visibilità on-line, quanto quello di costruire un’immagine che abbia dei contorni, sia un “sé”.

Credo che il critico oggi debba sapere che, alla fine, la sintesi delle sue riflessioni andrà discussa anche in rete, ma non deve sintetizzare quanto proviene dalla rete, bensì un’idea interpretativa che dimostri una sua precedente coerenza. I metodi dovrebbero, finalmente, essere svecchiati, messi al passo (non al séguito) degli ambiti di ricerca cognitivisti, in analogia con quanto già avviene nella linguistica e nella critica d’arte: ma occorre una riflessione ampia e sistematica, filosofico-scientifica in senso alto, che non può avvenire direttamente in rete. Dopodiché, se si punta a far entrare in circolazione in tempi rapidi queste idee, la rete è indispensabile. Entro certi limiti, internet può anche contribuire ad aprire finestre per opere altrimenti di nicchia: la poesia, per esempio, dovrebbe alla lunga avvantaggiarsi di questa situazione socio-culturale. Spesso, però, secondo un processo ben noto, persino le innovazioni più interessanti della internet-art vengono riassorbite nel sistema di compravendita consueto. Anche per questo è indispensabile che si attui un processo di aggregazione di un pubblico competente e attivo non solo in rete, che sostenga in maniera convinta le opere significative.

5. Il nostro paese vive un momento di gravissima emergenza storica rispetto alla generazione dei trentenni e dei quarantenni, tenuti ai margini della vita produttiva in generale, e scolastica e universitaria in particolare, con la conseguente perdita delle sicurezze materiali date ormai per acquisite dalle generazioni precedenti. Come questa consapevolezza attraversa o condiziona le vostre scelte critiche e, più in generale, la vostra posizione nel campo intellettuale?

Purtroppo l’impossibilità attuale di delineare un futuro per giovani ormai pronti per la ricerca universitaria, o comunque per operare come esperti di letteratura, è una condizione frustrante e difficilmente superabile in tempi rapidi. Nell’ambito dei più generali problemi derivati dalla totale deregulation del capitalismo finanziario, quello della ricerca umanistica ha l’importanza che può avere una provincia piccola e sperduta, alla quale ormai si fa fatica ad assegnare un ruolo che sia percepito come socialmente significativo. Manca soprattutto una chiara progettualità, che faccia comprendere cosa si potrà raggiungere come risultato di ricerche specialistiche di cui i non addetti ai lavori non capiscono l’utilità.

Io credo che, se si vorrà cambiare qualcosa nel prossimo futuro, si dovrà per forza stabilire un patto molto più chiaro con coloro che studieranno materie letterarie con l’idea di lavorare sulle opere o comunque nel sistema culturale attinente alla letteratura. Solo l’ideazione e la realizzazione di grandi progetti di ricerca e insieme di alta divulgazione potranno ancora consentire l’immissione di giovani nell’ambito del lavoro letterario. Insisto anche sul versante della divulgazione, da sempre considerata in Italia o una cenerentola o un’attività a scopo di lucro, e che invece richiederebbe un impegnativo ripensamento per rinnovare la didattica universitaria, così come lo si sta facendo per quella delle scuole superiori.

Credo quindi che tutti coloro che sono attualmente all’interno del mondo accademico, e guardano con attenzione ai risvolti sociali della loro attività, non possano esimersi dal tentare di esperire nuove modalità e nuovi obiettivi della ricerca. Non basta cioè rivendicare una quota maggiore di finanziamenti per creare borse di studio o posti a tempo (in)determinato. Bisogna anche capire e far capire a quale fine deve tendere questo sforzo. Una sinergia fra competenze canoniche (filologiche, storiche, ermeneutiche…) e “situazionali” (esigenze e obiettivi della comunicazione in rete; modalità per ottenere una nuova fruizione dei classici; avvicinamento di tipi di fruitori di solito separati – studenti, docenti delle scuole, divulgatori, specialisti…) potrebbe portare a una nuova fase progettuale complessiva, di cui si sente il bisogno per superare le parcellizzazioni attuali, che spesso hanno impedito e impediscono di avere un futuro a giovani ottimamente preparati, ma in sedi prive di risorse.

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