Di Alberto in: Proposte

Romanzi di Finisterre 1


Capitolo sul Doktor Faustus da Alberto Casadei, Romanzi di Finisterre (Roma, Carocci, 2000). Per le indicazioni bibliografiche, si veda la categoria Discussioni

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Allegoria e apocalisse (l’arte nella guerra):

Doctor Faustus di Thomas Mann

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Così il narratore Serenus Zeitblom all’inizio del cap. xxxiii del Doktor Faustus (1947; trad. it. Doctor Faustus, 1949, p. 401):

 

Il tempo del quale scrivo fu per noi tedeschi l’epoca del crollo dello Stato, della capitolazione, della rivolta per esaurimento, dell’impotente consegna nelle mani dello straniero. Il tempo nel quale scrivo per affidare ai fogli queste memorie nel mio tranquillo ritiro porta nel grembo orribilmente gonfio una catastrofe della patria al cui confronto la sconfitta di allora sembra una sciagura moderata, la ragionevole liquidazione di un’impresa sbagliata. Una fine vergognosa è pur sempre più normale di quella condanna che pende ora sul nostro capo, simile a quella che colpì a suo tempo Sodoma e Gomorra e più grave di quella che avevamo provocato l’altra volta [Die Zeit, von der ich schreibe, was für uns Deutsche eine Aera des staatlichen Zusammenbruchs, der Kapitulation, der Erschöpfungsrevolte und des hilflosen Dahingegebenseins in die Hände der Fremden. Die Zeit, in der ich schreibe, die mir dienen muß, in stiller Abgeschiedenheit diese Erinnerungen zu Papier zu bringen, trägt, gräßlich schwellenden Bauches, eine vaterländische Katastrophe im Schoß, mit der verglichen die Niederlage von damals als ein mäßiges Mißgeschick, als verständige Liquidierung eines verfehlten Unternehmens erscheint. Ein schmähliches Ende bleibt immer etwas anderes, Normales noch als ein Strafgericht, wie es anjetzo über uns schwebt, wie es dereinst auf Sodom und Gomorra fiel, und wie wir es jenes erste Mal denn doch nicht heraufbeschworen hatten].

 

Il racconto prosegue poi con alcuni riferimenti all’invasione di Normandia, alle nuove armi (le V1) di Hitler, e all’odio immenso («unermeßlich Haß») che i tedeschi hanno suscitato fra i popoli che li circondano.

La compresenza del tempo della scrittura da parte del narratore, che è quello della sgm (e più precisamente il periodo dal 27 maggio 1943 all’aprile del 1945), e di quello dei fatti raccontati (cioè la biografia del compositore tedesco Adrian Leverkühn), che vanno dalla primavera del 1885 al 25 agosto 1940 (e che dunque riguardano anche il periodo della pgm), è di eccezionale importanza per lo sviluppo della narrazione, come già hanno notato tutti i commentatori[1]. La vicenda narrata ha come contrappunto quella del narratore, che confessa apertamente la sua angoscia nel vedere la fine della Germania, peraltro ritenuta inevitabile; e in vari punti viene esplicitato un parallelismo tra la sorte di Leverkühn e quella della sua patria, come avviene poco oltre il passo sopra citato (pp. 407-8):

 

Eppure, per quanto non fosse possibile mettere in relazione il decadimento della sua [di A. L.] salute con la sciagura della patria, la mia tendenza a considerare l’una e l’altra in un parallelo oggettivo e simbolico [in objektivem Zusammenhang, symbolischer Parallele zu sehen], forse ispiratami soltanto dalla contemporaneità, era invincibile a causa del suo distacco dalle cose esteriori.

 

Analizziamo brevemente qualche altro intervento del narratore. Se fin dal suo esordio Zeitblom parla della sua difficoltà a raccontare, nel pieno della guerra, gli eventi accaduti all’amico («Rileggo le righe precedenti e non posso fare a meno di notare una certa inquietudine, una certa pesantezza di respiro fin troppo significativa di quello stato d’animo in cui [...] mi accingo a iniziare la biografia dell’infelice amico», p. 19), in seguito i riferimenti alla sorte dei tedeschi diventano sempre più frequenti. Serenus parla per la prima volta esplicitamente delle lotte in corso e della situazione della guerra (dopo lo sbarco in Sicilia) in un lungo commento all’inizio del cap. xxi (pp. 214-8), in cui ormai «si prospetta un crollo indicibile, economico, politico, morale e spirituale, universale insomma» (p. 217); poi, dopo il già citato cap. xxxiii, un la-mento per la rovina imminente costituisce l’attacco del cap. xxxvi («O Germania, tu vai in rovina [du gehst zugrunde], e io penso alle tue speranze!», p. 459); ancora un esordio drammatico è quello del cap. xli («Affezionati lettori e amici, – io continuo. Sulla Germania si abbatte la rovina [das Verderben]; tra le macerie delle nostre città vivono i topi ingrassati di cadaveri; il rombo dei cannoni russi avanza verso Berlino; il passaggio degli anglosassoni oltre il Reno è stato un giochetto da bambini, e pare che tale lo abbia reso la nostra stessa volontà, alleata con quella del nemico. La fine viene, viene la fine, ed ecco, giunge la tua volta, o abitante del paese [das Ende kommt, es kommt das Ende, es gehet schon auf und bricht daher über dich, du Einwohner des Landes], – ma io continuo», p. 510); e, in crescendo retorico, ecco quello del cap. xliii: «Il mio racconto si avvia alla fine – come tutte le cose. Tutto precipita verso la fine; il mondo è sotto il segno della fine [in Endes Zeichen steht die Welt], lo è almeno per noi tedeschi, la cui storia millenaria, confutata, portata all’assurdo, sciaguratamente sbagliata, dimostrata erronea da questi risultati, sfocia nel nulla, nella disperazione, in un fallimento senza pari, in una rotta infernale attorniata da fiamme danzanti e tonanti» (p. 530). Ancora più espliciti e definitivi sono l’esordio del cap. xlvi (pp. 561-4) e quello dell’Epilogo (pp. 587-8, in cui si parla della fine della sgm, che, testualmente, si conclude con il romanzo), dei quali avremo modo di riparlare.

Va notato a parte che, nei capitoli centrali del DF, sono numerosi anche i paragoni tra la situazione del 1944-45 e quella della pgm: si veda ad esempio il cap. xxxvi, in cui Zeitblom dice che sta scrivendo «nell’aprile del 1944», ma sta parlando dell’autunno del 1912, «venti mesi prima dello scoppio dell’altra guerra», e riflette poi sui legami tra il tempo narrato e quello del narratore, cui nel futuro si collegherà anche il tempo del lettore (p. 307). E si veda poi il cap. xxix, in cui la continuità fra le due guerre è dichiarata: «Era [...] l’ultimo carnevale prima che scoppiasse la guerra dei quattro anni, la quale oggi si aggancia, davanti al nostro sguardo storico, al terrore dei giorni presenti formando un’epoca sola [mit den Schrecken unserer Tage zu einer Epoche zusammenschließt]» (p. 344). E si veda infine il cap. xxx, in cui si riflette sul senso stesso della guerra e sul «divenire dei tedeschi [die deutschen Werde-Prozesse]» (cfr. pp. 361-3).

È chiaro ormai che questa costruzione a contrappunto, con il com-mento (e confessione) di Zeitblom non solo sul tema della biografia dell’amico Leverkühn, ma anche sul destino della Germania tutta, è necessaria alla struttura dell’opera: il suo senso non sarebbe identico se la parabola dell’Arte e quella della Storia contemporanea non si sovrapponessero, sino a coincidere nella fine.

Sono dunque evidenti le relazioni fra il presente della sgm e il passato della Germania: occorre però un’ulteriore considerazione. Se è vero infatti che nel DF il presente di Serenus Zeitblom e il passato di Adrian Leverkühn (o anche: il presente di  Leverkühn e il futuro della Germania) sono strettamente connessi, è pure vero che Mann con l’Entstehung (1949), cioè il diario della genesi del DF, fornisce a tutto il romanzo un altro presente, il suo di autore, che di fatto va a costituire un’integrazione dell’aspetto specificamente romanzesco. L’opera, cioè il DF stesso, termina nel 1947, e viene descritta in questo diario, che in un certo senso rappresenta la sintesi dei due tempi precedenti. Va perciò sottolineato che l’Entstehung non propone solo le notizie sulla composizione e sui fini dell’opera, che Mann ha sempre fornito ai suoi lettori: con questo racconto della genesi del DF, l’autore scrive un altro romanzo (il sottotitolo recita infatti «Roman eines Romans») che completa il primo, legando ciascun momento della storia narrata ad uno della storia vissuta dall’autore. L’artista di cui si parla è anche Mann, che scrive il suo “romanzo della fine”. Non più solo arte e guerra quindi, ma l’arte nella guerra.

 

2. Vediamo meglio come è organizzato questo imponente materiale. L’uso del procedimento dialettico, impiegato da Mann in molti snodi essenziali del romanzo[2], risulta bloccato sul momento negativo sia riguardo la storia, sia l’arte (la musica in specie, che però sta, in metonimia, per l’arte tutta), perché l’avvento del nazismo e lo scatenamento della guerra non consentono alcun superamento dell’antitesi in una sin-tesi superiore, del momento negativo in un nuovo momento positivo.

Occorre partire da questa premessa per comprendere la funzione della sgm all’interno del DF. Questa guerra non dovrebbe rappresentare, nelle intenzioni di Mann, soltanto un periodo storico di sfondo, ma il momento del crollo dell’arte romantico-ottocentesca e della Kultur: il destino dell’arte, cioè, non sarebbe stato identico se la fine non fosse avvenuta nel secondo tempo implicito nel testo, quello del narratore, che è poi, inizialmente, lo stesso della reale creazione dell’opera, così come viene riproposto nella Entstehung[3].

Questo tema ci porta, almeno idealmente, nell’àmbito della prognosi spengleriana sul destino della civiltà occidentale, perché per più di un aspetto il DF interpreta, sebbene involontariamente, l’evoluzione ultima della cultura faustiana (nel senso indicato dal Tramonto dell’Oc-cidente)[4]. In altri termini, è venuta ormai meno la divisione Naturale/Innaturale, ossia Organico/Inorganico, Umano/Tecnico, come si evince da due famosi passi del DF, in cui si parla degli esperimenti chimici effettuati dal padre di Leverkühn (cap. iii, pp. 36-8), e del “disumano” che dimora negli abissi marini e negli spazi cosmici (cap. xxvii, pp. 324 ss.). Questa situazione si è generata già prima della guerra del 1914-18, e ha provocato uno stato di lotta mondiale per raggiungere un nuovo equilibrio: ma, contrariamente a quanto sosteneva Spen-gler, la guerra conclusiva di questo processo (cioè la Seconda guerra mondiale) è la distruttrice, e non la creatrice, di tutte le grandi cose.

Nei modelli letterari dell’apocalisse si trova un antecedente importante per il DF[5]; ma questa apocalisse storica è rappresentata e vissuta insieme: rappresentata attraverso i riferimenti del narratore già citati, vissuta attraverso la vita di Leverkühn-Faust, che allegorizza le motivazioni della fine dell’arte. La riscrittura della storia di Faust e del suo patto col diavolo serve a descrivere (appunto allegoricamente) come dallo Streben si sia passati all’esaurimento dell’impulso creativo e all’ab-bandono di ogni tensione positiva nell’arte e nella Kultur. Il grande tema manniano dell’artista che vive nella società borghese si trasforma in quello dell’artista travolto dalla storia distruttrice, ormai guidata da forze mostruose (e si noti, per inciso, che il crollo totale della Germania è appunto attribuito da Mann alla sua disponibilità ad accettare ogni forma di oltranzismo politico e culturale, così come Adrian, intellettuale non innocente, aveva accettato ogni oltranzismo artistico). Di fatto, il DF è anche un’allegoria, nel senso più completo del termine (e non in quello, troppo facile e già rifiutato da Mann, di una semplice resa allegorica della storia della Germania nella vicenda di Leverkühn).

 

3.1. Questo romanzo della fine, opera programmaticamente epocale, riprende dunque le forme del più grande mito della modernità, la storia di Faust[6]. In effetti il mondo del DF è, come sosteneva già Lukács, quello inaugurato dalla tragedia di Goethe, ma ormai prossimo alla sua autodistruzione («epilogo di tutto lo sviluppo posteriore al 1848»)[7]: e l’arte finisce con la sua perfetta saturazione, che coincide con la sua paralisi.

È evidente, come si è detto, la forma della biografia. Non viene però cancellata la struttura da romanzo, basata su uno sviluppo classico ottocentesco, con un sottile contrappunto di tipo sterniano[8], creato dagli interventi del narratore: già l’inizio è significativo per le continue interruzioni e autocorrezioni di Zeitblom («Rileggo [...] Avevo appena incominciato poc’anzi a scrivere [...] Qui m’interrompo [...] M’in-terrompo di nuovo», pp. 19-21), che poi si ripeteranno lungo tutta l’opera. L’effetto è umoristico-ironico, ma può anche essere angosciante, soprattutto quando si parla della sgm.

All’interno di questa macrostruttura si riconoscono vari modelli romanzeschi:

a)  il romanzo di formazione (soprattutto nei capp. i-xxiv, cioè fino all’incontro con il diavolo): la formazione di Leverkühn lo conduce però alla perdita della distinzione tra cultura e barbarie (cfr. p. 84: «La barbarie è il contrario della cultura solo entro l’ordine di idee che questa ci mette a disposizione. Fuori di quest’ordine di idee il contrario può essere tutt’altro, o può non essere affatto un contrario [Die Barbarei ist das Gegenteil der Kultur doch nur innerhalb der Gedanken-ordnung, die diese uns an die Hand gibt. Außer dieser Gedanken-ordnung mag das Gegenteil ganz etwas anderes oder überhaupt kein Gegenteil sein]»), e ciò costituisce la premessa alla genialità autodistruttiva di Adrian, che giunge a ritenere l’arte ormai soltanto parodia (cfr. ad esempio pp. 168-9: «Perché mi deve sembrare che quasi tutti, anzi tutti addirittura i mezzi e le convenienze dell’arte possano oggidì servire soltanto alla parodia? [heute nur noch zur Parodie taugten?]»).

Sul termine “parodia” bisogna fare una piccola nota a margine. Esso può assumere un valore positivo, in quanto superamento di limiti non giustificati, ma anche uno negativo, in quanto negazione di ogni forma di arte pura: in realtà, il primo valore trapassa sempre nel secondo, all’interno del DF. La parodia in sé non è sufficiente ad arginare la crisi dell’arte romantico-borghese, di cui parla il diavolo ad Adrian nel famoso cap. xxv (su cui si veda il punto c);

b)  il romanzo-enciclopedia, definizione applicabile soprattutto a partire dal cap. xxvi, anche se può essere estesa all’intera opera. Questo aspetto è ben studiabile dopo l’analisi sistematica di Ulrike Hermanns (1994) sulle fonti del DF. Pare evidente l’intento manniano di comporre una summa di opere epocali, dalla Commedia dantesca alle varie Apocalissi. Queste ultime sono utilizzate esplicitamente nel cap. xxxiv, per descrivere l’oratorio di Adrian Apocalipsis cum figuris, dove si legge fra l’altro che le parole dette dal testis, il narratore interno all’opera musicale, sono le seguenti: «Viene la fine, la fine viene, ella si desta per te, ecco che viene! Viene la tua volta, o abitante del paese [Das Ende kommt, es kommt das Ende, es ist erwacht über dich; siehe es kommt. Es gehet schon auf und bricht daher über dich, du Einwohner des Landes]» (p. 424). Ma queste parole, che costituiscono una citazione quasi letterale di un passo apocalittico di Ezechiele (cfr. 7, 2-7), come si ricorderà sono riprese da Serenus nell’attacco del cap. xli (cfr. par. 1), per annunciare l’imminente fine della Germania: è così evidenziato una volta di più il continuo rinvio testo-storia, apocalisse descritta-apocalisse reale[9];

c)  il romanzo-dibattito delle idee. Il modello dostoevskiano è esplicito (cfr. Entstehung, p. 156), specie per il fondamentale cap. xxv, ossia la discussione di Adrian col diavolo (che, per inciso, si svolge a Palestrina, città in cui Mann aveva iniziato la stesura dei Buddenbrook). Non si riprenderanno tutti gli spunti in essa proposti (del resto già sviscerati da molti interpreti), ma solo alcune frasi fondamentali per capire la condizione dell’arte alla fine del romanticismo.

Dice il diavolo, nella parte centrale del suo discorso (pp. 292-5):

 

Quando l’opera non è più in accordo con la verità, come si fa a lavorare? Ma le cose stanno proprio così, mio caro: il capolavoro, l’opera compiuta in se stessa [in sich ruhende Gebilde], appartiene all’arte tradizionale, mentre l’arte emancipata la rinnega [...]. L’arte diventa critica [...]. È finita per le convenzioni di valore anticipato e obbligatorio, le quali garantivano la libertà del giuoco [Kunst wird Kritik [...] Es ist geschehen um die vorweg und verpflichtend geltenden Konventionen, die die Freiheit des Spiels gewährleisteten].

 

Queste considerazioni mostrano una matrice adorniana, e testimoniano la distanza ormai incolmabile tra l’opera d’arte come creazione (romantica) e l’opera d’arte come riflessione (avanguardistica). In que-st’ottica, il diavolo può anche far notare ad Adrian la limitatezza della sua concezione dell’arte come parodia («Tu alludi alla parodia, che potrebbe essere allegra se non fosse tanto triste nel suo nichilismo aristocratico. Ti riprometteresti molta fortuna e grandezza da simili sotterfugi?», p. 295). Sullo sfondo della discussione si percepisce sempre la fondamentale questione del superamento delle barriere tra artificiale e naturale, ossia, in musica, delle dissoluzioni tonali e della saturazione del sistema armonico, che portano al suo decadimento atomico[10].

Ma a fianco di queste affermazioni ve ne sono altre che possono rimandare alla condizione specifica dell’arte durante la guerra. Si tratta di quelle che riguardano il modo di rappresentare il male e il dolore: «Ormai si può ammettere soltanto l’espressione non fittizia, l’espres-sione non esaurita, non simulata e non trasfigurata del dolore nel suo momento reale [Zulässig ist allein noch der nicht fiktive, der nicht verspielte, der unverstellte und unverklärte Ausdruck des Leides in seinem realen Augenblick]» (p. 294). La condizione per raggiungere una verità nell’opera d’arte (immersa nella guerra) sarebbe allora quella di rifiutare tutti i suoi mezzi retorici, per interpretare il dolore come unica realtà degna dell’arte stessa.

Su questo punto torneremo più avanti. Ora, con l’ausilio di alcune lettere, notiamo che Mann sembra considerare cambiata la natura dell’opera d’arte, non più creazione ma collage o montaggio. In questo senso è interessante la lettera inviata ad Adorno il 30 dicembre 1945, della quale si può proporre qualche brano (Lettere, pp. 606-10):

 

Ciò di cui desidero soprattutto rendere ragione, commentando me stesso, è il metodo del montaggio, che si prolunga, in modo abbastanza singolare e forse urtante, attraverso tutto il libro: e per di più dichiaratamente, senza affatto dissimularsi [...]. Si potrebbe parlare di un’inclinazione senile a vedere il mondo come prodotto culturale e in forma di clichés mitici, che, con mummificata dignità, si preferiscono all’invenzione “autonoma” [ma qualcosa di simile era già stato operato nei Buddenbrook]. Più difficile, per non dire più scandaloso è il caso quando si tratta di un’appropriazione di materiali che sono già spirito, cioè di un vero prestito letterario [come nel caso delle teorie di Adorno. Ma,] fin dall’inizio, presi la risoluzione di non arretrare di fronte ad alcun accostamento, ad alcun ricorso ai beni altrui, in un libro già di per se stesso incline al principio del montaggio: confidando che quanto avessi catturato, imparato da altri potesse ben acquistare, in seno alla mia composizione, una sua funzione autonoma, una vita simbolica indipendente, rimanendo intatto nella sua originaria sede critica.

 

Viene insomma evidenziato (peraltro, senza che siano proposti riferimenti teorici) un punto di contatto tra il metodo compositivo del DF e l’arte d’avanguardia. Tuttavia, forti rimangono le differenze tra la concezione di fondo di questo testo manniano e il movimento modernista.

Per vedere quali, ricorriamo in primo luogo ad un’altra lettera di Mann, quella ad Enzo Paci dell’8-12 agosto 1950 (Lettere, pp. 785-9), che tratta argomenti di grande importanza. Innanzitutto, viene proposto un collegamento con la Zauberberg per ciò che riguarda il tema del “potenziamento”, che si accompagna a quello dell’inibizione alla creazione, propria del singolo artista (Leverkühn) e dell’intera epoca fra le due guerre. Poi si afferma che il DF «è in gran parte un romanzo su Nietzsche», ma non solo: l’essenza del libro sta anche «nel suo carattere di opera autobiografica, nell’essere una confessione religiosa così profondamente conturbante da costarmi quasi la vita». Mann sottolinea poi il carattere umoristico anche di questo «tenebrosissimo libro».

Un romanzo su Nietzsche, certo: sulla sua presenza nel DF già molto si è scritto (anche per una definizione del problema del germanesimo manniano). Qui interessa ricordare che, dal 1942, Mann si impegnò in una attenta rivisitazione della filosofia nietzschiana (e, in questa rivisitazione, importante fu ancora il rapporto con Ernst Bertram), ma questo non implicò una (ri)accettazione: Nietzsche rappresenta un modello fondamentale per la biografia di Leverkühn, non però il modello unico per le sue idee (pure, in buona misura, nietzschiane), che comunque vengono discusse, di fronte all’evoluzione ultima dell’arte moderna e della nuova musica, da un lato, e alle conseguenze nefaste del nazismo, dall’altro.

D’altro canto, è sempre Nietzsche il perno attorno al quale ruota la riflessione sul ruolo dell’artista. Nonostante tutti i cambiamenti, Mann, in fondo, non sposta i cardini della sua concezione artistica: come ha notato De Angelis (1971), la triade Wagner-Schopenhauer-Nietzsche, nonostante i tanti dubbi sulla sua attualità, rimane sullo sfondo della pur vasta enciclopedia culturale del DF, che deve sì chiudere i conti con l’opera, con il capolavoro romantico-ottocentesco, ma ponendosi come il capolavoro della fine, il romanzo-apocalisse.

Vediamo ancora una lettera, quella a Bruno Walter del primo marzo 1945, che non ha bisogno di commenti (Lettere, p. 566):

[spiego] che cos’è il mio romanzo e che cosa intendo rappresentare con questa figura di musicista intellettuale. Vi si riflettono anche la musica “nuova”, “radicale”, persino il sistema di Schönberg, caro amico, perché non c’è dubbio che la musica, non meno di tutte le altre arti – e non solo le arti! – si dibatte in una crisi che a volte sembra doverla spegnere. In letteratura, talvolta, la si maschera con un ironico tradizionalismo. Ma Joyce, ad esempio, dal quale in un certo senso non sono poi tanto lontano, per una mentalità di formazione classico-romantico-realistica, è una provocazione proprio come Schönberg e i suoi [...]. E per quel che concerne la musica corrispondente, non abbia alcun timore per me: dalla testa ai piedi sono tutto per il ciarpame romantico.

 

Dunque, entrano in gioco nel DF concezioni dell’arte e posizioni politiche e filosofiche assai diverse, che sono giunte alle loro estreme conseguenze con la sgm. L’effetto finale di queste tensioni ideologico-formali potrebbe sembrare quello di una totale frammentazione[11]. Tuttavia, sarebbe sbagliato evidenziare le singole parti (i singoli toni e livelli linguistici e codici utilizzati) senza tener conto dell’insieme e della sua organizzazione-organicità, ancora molto forte.

 

3.2.1. In effetti, il romanzo si compatta come unitaria biografia di un artista, e si può dire: (auto)biografia dell’artista da giovane e da vecchio[12]. Elementi manniani sono presenti tanto in Leverkühn quanto in Zeitblom, come Mann stesso dichiarò a più riprese, al punto che da più parti si è parlato di una loro identità: ma forse è meglio parlare di complementarietà. I due personaggi devono essere necessariamente integrati, come un Chisciotte e un Sancio dell’arte, ciascuno vittima di un suo ideale sbagliato, troppo in alto o troppo in basso di fronte allo svi-luppo della storia vera.

Ma in ogni caso il DF è anche un’autobiografia perché, come si è più volte sottolineato, va letto con il diario della sua genesi, Die Entstehung, il «romanzo di un romanzo». È il momento di esaminare nel suo insieme questa parte integrante del DF, per ricavarne indicazioni non meramente autobiografiche.

La Entstehung si apre con alcuni riferimenti di Mann alla propria morte (prevista in coincidenza con il settantesimo compleanno): sono significative dichiarazioni come la seguente: «supposizione che io abbia timore di questa impresa perché l’ho sempre considerata il mio ultimo lavoro» (p. 75). Il DF è quindi sentito dall’autore come «opera della sua vecchiaia», e insieme come «romanzo della sua epoca travestito nella storia di una vita di artista» (p. 89; cfr. anche pp. 83-7, dove si sottolinea che l’inizio dell’opera di Zeitblom coincide con quello di Mann stesso). E più oltre: «Come è contenuta nel Faustus l’atmosfera della mia vita! In fondo è una radicale confessione. Questo è stato fin dall’inizio l’elemento sconvolgente di questo libro» (p. 178).

D’altro canto, lo scrivere una biografia consente «una mai provata spregiudicatezza, tale da atterrirmi [...], nel montare dati di fatto, storici, personali e persino letterari, di maniera che, all’incirca come avveniva nei “panorami” [...], la realtà passa [...] all’illusione della pittura in prospettiva» (pp. 84-5). Di qui la riflessione sui suoi mezzi artistici, tradizionali ma non superati, come conclude dopo un implicito confronto con Joyce: «Nutrivo il pregiudizio che, accanto all’avanguardismo eccentrico di Joyce, la mia opera dovesse fare l’effetto di un fiacco tradizionalismo. Vero è che il legame tradizionale, anche se tinto di parodia, consente una più facile accessibilità e comporta la possibilità di essere più popolare. Tuttavia è più questione di atteggiamento che di essenza [...] e la domanda di T. S. Eliot, “whether the novel had not outlived its function since Flaubert and James, and whether Ulysses should not be considered an epic”, corrispondeva esattamente alla mia domanda se, a quanto pare, nel campo del romanzo valga oggi soltanto ciò che non è più romanzo» (p. 130). Insomma, nell’Entstehung vengono dichiarati e discussi i temi che nel DF trovano una loro sistemazione in forma di romanzo della fine (o di romanzo ai limiti della forma-romanzo).

Quanto al rapporto con la storia della sgm, è molto importante che le parti del già citato cap. xxv dedicate alla descrizione degli inferi siano scritte da Mann «avendo nelle orecchie le declamazioni isteriche degli annunciatori tedeschi sulla “sacra battaglia della libertà contro la massa senza anima”»: addirittura, «le pagine sull’inferno [...] non sono pensabili senza l’intima esperienza dei sotterranei della Gestapo» (p. 143: cfr. DF, pp. 298-300). Più oltre, Mann si preoccupa di sottolineare, in questo ripensamento, la quasi coincidenza temporale tra la fine della stesura del cap. xxvii («col viaggio di Adrian negli abissi del mare e fra le stelle»), e il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, e commenta: «Era lo sfruttamento politico dell’“intimo della natura” nel quale, come dice il poeta, non era dato “allo spirito creato” di penetrare» (cfr. p. 161). Dunque, della fase finale della sgm viene appunto stigmatizzato quell’aspetto faustiano dell’uso tecnologico della natura, che costituisce uno dei cardini della riflessione nel DF .

Ma, nell’Entstehung, l’opera non si conclude con l’apocalisse tecnologica, e si parla invece della continuazione del mondo dopo la fine della guerra (cfr. già p. 162). Del resto, anche nella lunga lettera a Walter von Molo del 7 settembre 1945 (Lettere, pp. 582-92), percorsa da accenni amari alla condizione di esiliato cui il nazismo lo aveva costretto, Mann dice di credere «all’avvenire della Germania, per disperato che appaia il suo presente» (p. 590), e che la storia del mondo continua, come quella dei tedeschi, cui non potrà mancare il riscatto, grazie anche ad un nuovo «umanesimo sociale»[13]. Tuttavia, tali accenni positivi sembrano per lo più dettati da un volontarismo etico, cui corrisponde, nel DF, solo un’esile speranza (cfr. par. 4)[14].

 

3.2.2. Per comprendere meglio queste riflessioni è però indispensabile proporre almeno qualche confronto con il Mann delle Considerazioni di un impolitico, che s’interrogava sul destino della Germania durante e dopo la pgm. Importante pare in specie un lungo passo, di cui si citano le parti essenziali: «L’umanità abnorme della guerra offende il senso umanitario e lo ripudia [...]. Le cose che vado qui accennando, e tutte le altre che a quelle sono connesse, indubbiamente danno da pensare; ma non hanno nulla, assolutamente nulla a che fare con l’imbarbarimento, e invece indicherebbero l’elevarsi, l’approfondirsi e il nobilitarsi della pianta umana per opera della guerra» (pp. 403 ss., corsivo nostro).

Questo aspetto risulta nettamente contrapposto a quello che viene sviluppato nel DF, l’imbarbarimento culminato nell’avvento del nazismo. Si veda ancora: «Ritenere la guerra un’istituzione immortale, un mezzo rivoluzionario indispensabile per chi volesse far trionfare la verità sulla terra, è tuttora possibile anche se la guerra stessa, col progresso dei suoi mezzi tecnici, sembra ormai essere portata all’assurdo» (ibid.): una posizione totalmente superata nel DF, in cui la guerra, cioè la sgm, viene intesa come male assoluto, e non come potenzialità positiva o negativa, a seconda delle circostanze. La posizione di Mann cambia radicalmente appunto perché nel 1939 la guerra è dovuta al nazismo, cioè ad una forza unicamente distruttiva. Questa guerra diviene il termine di confronto di tutta la storia tedesca: perciò la sgm deve essere rappresentata nel DF, e non solo al termine del romanzo, come nella Zauberberg, in cui la pgm appare come il «grande tuono» che chiude ogni possibilità di un altro tempo.

Facendo una somma parziale, possiamo affermare che la biografia e l’autobiografia diventano romanzo a tutti gli effetti dal momento che l’opera conclusiva riguarda il destino dell’artista: in altre parole, il DF è il romanzo della fine anche perché la parabola intera dell’arte manniana sostanzialmente si compie qui.

 

4. Per avvalorare le osservazioni sin qui svolte, occorre ora tornare al testo, e in specie ad una delle sue parti più belle, il cap. xlvi (cioè l’ultimo prima che la malattia di Adrian giunga allo stadio di irreversibilità), in cui si descrive la cantata sinfonica Lamentatio Doctoris Fausti, opera finale di Leverkühn.

Lo sfondo su cui viene collocata la composizione della Lamentatio è, secondo il tempo del narratore, quello della fine della guerra: Zeitblom dice di scrivere il «25 aprile del fatale [Schicksalsjahr] 1945», con la mente stanca che accetta «con cupo fatalismo» l’incredibile orrore destinato al popolo tedesco. La resa della Germania è ormai cosa avvenuta, e l’avvenire non è più dato: sono troppo grandi le colpe di chi ha permesso i forni crematori, cosicché «ogni forma di vita tedesca fa orrore ed è esempio del male». Segue un’esplicita accusa a chi ha traviato una schiatta umana in origine buona e giusta, e che ora guarda il nulla che la aspetta. E chiude questo esordio sul presente con questo commento: «Come si abbinano stranamente i tempi, quello in cui scrivo con quello che costituisce l’ambito di questa biografia! [Wie eigentümlich doch schließen sich nun die Zeiten – schließt sich diejenige, in der ich schreibe, mit der zusammen, die den Raum dieser Biographie bildet!]» (cfr. pp. 561-4).

Non potrebbe esserci conferma più esplicita della volontà di paragonare la conclusione dell’opera di Leverkühn con la fine della Germania, o meglio del germanesimo. E la Lamentatio assume il ruolo di metafora di questa condizione, in quanto opera in cui ogni valore positivo della Kultur, ogni tensione etica e metafisica dell’arte romantica vengono stravolti e rinnegati. Si raggiunge l’identità sostanziale della massima beatitudine col massimo orrore («substanzielle Identität des Seligsten mit dem Gräßlichsten»); si ha qui la perfetta applicazione dei principi dodecafonici, per cui non esiste più nulla di extratematico («nichts Unthematisches mehr kennt»). Ma questa forma assoluta (astratta, nei termini di Adorno) è espressione di un dolore incommensurabile, quello di Leverkühn-Faust che muore da cattivo e buon cristiano, e che vede profilarsi con spirito veggente tante rovine: per cui la Lamentatio si configura infine come l’anti-Nona di Beethoven, come l’opera in cui la gioia e la speranza vengono ritirate, «non devono essere». «Es soll nicht sein»[15] è l’unica frase che l’uomo del dolore Adrian Leverkühn, ridotto alla pazzia e alla morte dalla sua irrefrenabile tensione verso il capolavoro irraggiungibile, può porre in esergo della sua opera conclusiva[16]. Il diavolo lo ha vinto, e ha vinto perché l’intera arte romantica è andata verso il suo destino di distruzione, così come la Germania. Per commentare questo totale “ritiro” del Bene dal mondo si attribuisce un’esclamazione a Dio stesso: «Non sono stato io a volerlo [Ich habe es nicht gewollt]» (p. 572). È un commento identico a quello che chiude Die letzten Tage der Menschheit (1915-26; trad. it. Gli ultimi giorni dellumanità) di Karl Kraus, in cui Dio parla e dice appunto: «Ich habe es nicht gewollt», che è la frase pronunciata dal Kaiser Guglielmo davanti allo spettacolo di una strage della pgm. Citazione, reminiscenza generica o semplice coincidenza che sia, quello che importa è l’identità nella chiusura dei due testi: quasi che la sgm compisse davvero ciò che la pgm aveva solo preannunciato.

Ma proprio in conclusione del capitolo Mann, sulla scorta di un umanesimo che non vorrebbe ancora abdicare, afferma che l’ultima nota della Lamentatio, il sol sopra il rigo d’un violoncello, rimane come esilissima speranza (p. 573):

 

Poi non c’è più nulla – silenzio e notte. Ma il suono che ancora vibra nel silenzio, quel suono svanito che soltanto l’anima ancora ascolta, ed era la fine della tristezza, ora non lo è più, muta di significato, è quasi un lume nella notte [Dann ist nichts mehr, – Schweigen und Nacht. Aber der nachschwingend im Schweigen hängende Ton, der nicht mehr ist, dem nur die Seele noch nach-lauscht, und der Ausklang der Trauer war, ist es nicht mehr, wandelt den Sinn, steht als ein Licht in der nacht].

 

Come è stato notato, non viene raggiunta una conclusione logica del movimento dialettico (razionale/irrazionale) che segna l’intero DF. Il negativo (storicamente rappresentato dal nazismo) non può essere superato, se non con un salto logico, una speranza che dovrebbe, molto umanamente, annullare l’estremo del male, invece accertato dall’esito della sgm.

 

5.1. Nella storia del romanzo, il Finnegans Wake rappresenta il culmine e l’entropia del modernismo (in quanto sperimentalismo linguistico); il DF la summa della Kultur ormai tramontata, a causa della saturazione della storia e dell’arte, e del disastro della sgm: la fase estrema dell’arte è qui considerata concomitante con la fase estrema di un ciclo storico. La barbarie sovverte ogni tipo di umanesimo. La parodia-ritiro dell’arte e l’apocalisse realizzata con la sgm, non simbolica ma allegorizzabile, vengono a coincidere.

I temi affrontati (in sintesi: la posizione dell’artista nel tempo della crisi finale del romanticismo, la malattia e la paralisi della creatività, ma anche la discussione sul destino della Kultur e sulla funzione della guer-ra nell’ambito dell’ultima fase del mondo faustiano) consentono di ripercorrere la storia della Germania e di vedere nella sgm una frattura ormai incolmabile. Viene perduta ogni residua possibilità di una grande arte borghese, contro le stesse posizioni manniane sulla funzione del grande artista.

Da un punto di vista formale, i limiti del romanzo sono superati dall’interno: la tecnica del montaggio è, almeno in parte, modernista, tuttavia Mann la adotta senza oltranzismi joyciani. Gli elementi costitutivi del DF sono di fatto quelli del romanzo ottocentesco, ma riattualizzati e assai dilatati; è però sempre riscontrabile un controllo autoriale molto attento, per cui non sarebbe giusto parlare di una postmodernità del DF. In altri termini, il DF è sì un’enciclopedia, una biografia, una confessione (specie se letto insieme con l’Entstehung), e finalmente un romanzo con un suo sviluppo romanzesco, ma è sempre chiara la finalità ultima, la creazione di un testo che ritraduce i tratti della forma narrativa dell’apocalisse (interpretata in senso culturale), giunge a costituire anche una compiuta allegoria della fine rappresentata dalla sgm.

Al DF è intimamente connessa l’Entstehung, che si può definire un diario in pubblico, rimaneggiato a posteriori ma nello stesso tempo vero della sua verità letteraria, confessione non del narratore, ma del-l’autore stesso. Certo, Mann ha sempre fatto coincidere la vita con l’arte, ma in questo caso la sua vita diventa un’integrazione necessaria del romanzo.

Narrare l’apocalisse, ponendo un freno razionale all’estrema irrazionalità: questo è il compito che Mann si prefigge con il suo romanzo. Tuttavia l’arte si è ritirata da ciò che è buono e nobile (cfr. DF, pp. 559 e 571), e la ricerca di una nuova etica, di un umanesimo che possa salvare risulta incompiuta. E si potrebbe aggiungere che la sgm è sì intimamente legata alla fine dell’arte di tipo romantico ottocentesco, ma non è rappresentata in sé, perché non si trova nel testo lo sconvolgimento in quanto tale: la sgm rappresenta quindi per Mann soprattutto un gigantesco scontro ideologico e culturale, mentre la guerra vissuta costituisce una conseguenza. Il non eccedere, il non guardare all’orrore della guerra in modo diretto, il non trasgredire: tutto questo trattiene il DF al di qua della scrittura pienamente novecentesca, e fa sì che questo romanzo, sorta di Parsifal manniano, segni una chiusura col passato molto più che un’apertura verso l’avvenire.

 

5.2. Ciò non toglie che il DF riesca ad affrontare i grandi problemi della modernità. Di fronte alla catastrofe rappresentata dalla sgm, Mann non punta ad una soluzione estetico-simbolica, come quella scelta da Hesse per il suo Das Glasperlenspiel (1943; trad. it. Il giuoco delle perle di vetro, 1945). Al di là delle modeste analogie tra la biografia del magister ludi Josef Knecht e quella di Leverkühn (cfr. Entstehung, pp. 116-8), la proposta di un pacifismo utopico e di una sublimazione artistica nel regno di Castalia si fonda su un sincretismo religioso-culturale (con elementi che provengono dal pietismo, dalle religioni indiane, dal buddhismo e dal taoismo, altri di origine platonica, altri ancora romantico-nietzschiani). Certo, non si può negare il personale impegno di Hesse contro il nazismo, ma il suo romanzo cifrato, significativamente dedicato ai «pellegrini d’Oriente», non pare proporre un’interpretazione della crisi determinata dalla sgm, come invece avviene nel DF, sia pure indirettamente.

Molto più indicativo è un confronto con il pensiero dell’ultimo Freud, specialmente quello di Das Unbehagen in der Kultur (1929; trad. it. Il disagio della civiltà), che costituisce una summa nel campo della psiche e delle passioni, una sorta di scenografia cosmica post-pgm, di «mitologia» (come dice Freud stesso nella lettera del 1932 ad Einstein sul tema Perché la guerra?) delle pulsioni inconsce: il principio di vita e di piacere contro quello di morte e di autodistruzione. L’analisi di Freud si conclude con questa diagnosi-profezia:

 

Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?[17]

 

Si potrebbe affermare, per concludere, che Mann scrive dopo la vittoria della pulsione di morte, e in questo senso il DF diventa il romanzo in cui anche la lotta delle forze profonde della civiltà occidentale trova il suo compimento: la rinascita successiva nulla toglie alla drammaticità di quanto è testimoniato nell’opera-summa. Il DF è insomma un romanzo canonico in via di scomposizione, che giunge a costituire, sul piano culturale, un equivalente o un’allegoria dell’apocalisse. Il riuso di queste grandi forme narrative è volto ad ottenere un realismo autentico, in grado di interpretare la tragedia ormai compiuta.

 

Note

 



[1]. Cfr. almeno Hamburger (1969), Lehnert, Pfeiffer (1991) e Adolphs (1991), anche per altra bibliografia.

[2]. Cfr. De Angelis (1971), specie pp. 96-8.

[3]. Non occorre sottolineare che la riflessione manniana sul destino dell’arte non è unicamente influenzata dalla sgm, e tuttavia si evolve anche in rapporto a questo evento catastrofico e all’ideologia tedesca che lo ha generato. In specie, il concetto di Kultur risulta profondamente modificato a partire dalla pgm: su ciò si veda l’importante Postfazione di M. Marianelli alla nuova edizione italiana delle Considerazioni di un impolitico. Il rinvio ci permette pure di evitare un resoconto necessariamente rapido delle riflessioni manniane sul tema della guerra; in genere dovremo limitarci a riferimenti molto settoriali riguardo l’evoluzione del pensiero manniano, in cui implicitamente cerchiamo di inquadrare alcuni dei temi qui proposti. Per un confronto con altre posizioni relative al concetto di Kultur, e per un chiarimento terminologico (rispetto a Zivilisation), si rinvia al classico saggio di Alfred Weber, Kulturgeschichte… (Weber, 1935).

[4]. I confronti con Spengler sono fatti secondo il metodo prospettico dello storico delle idee, nonostante siano ben note le obiezioni radicali a lui mosse da Mann. Cogliamo l’occasione per sottolineare che a questo metodo faremo ricorso più volte durante la nostra indagine.

[5]. Su ciò torneremo più oltre. Notiamo però subito che i modelli apocalittici vanno incontro ad una reinterpretazione profonda dopo la sgm, che può riguardare, come nel caso di Mann, il loro significato culturale, oppure soltanto il loro aspetto più superficiale (la narrazione della fine del mondo, magari dovuta alle armi atomiche). Il legame tra la catastrofe bellica e la rilettura del paradigma apocalittico è senz’altro accertabile anche in molta parte della cultura ebraico-tedesca, in specie in Taubes (1947), cui ci rifaremo per alcune successive osservazioni.

[6]. Per varie riflessioni su questi aspetti, cfr. Said (1975), pp. 182 ss. Vi si sostiene fra l’altro che il DF è «of all great modern novels the most thoroughly imbued with the history of novels as an institution, the novel most conscious of how overripe it is late in that history, and the novel nearest to a kind of dizzying anarchism in which the text as beginning effort coincides with the end, or final unsuitability, of man as a subject that can be represented using the written language» (p. 182). Quanto all’uso del mito, si può osservare che mentre Mann nelle opere precedenti, come Joseph und seine Bruder, aveva seguito forse Jung, certo Bachofen e Kerényi, nel DF prevale il confronto con Adorno (si veda infra): in un certo senso, l’arte stessa è considerata, adornianamente, mito rivolto contro se stesso.

[7]. Lukács (1953), p. 68.

[8]. Sterne è citato, esplicitamente o meno, varie volte, ad esempio pp. 98, 219 ss. Mann si muove peraltro nel solco della tradizione tedesca (si pensi specialmente a Jean Paul), così come fa per creare commistioni linguistiche. In ogni caso, l’impiego dell’umorismo non produce effetti dirompenti sulla compagine dell’opera.

[9]. Del resto, nell’Entstehung (trad. it. Romanzo di un romanzo, 1972, da cui si cita) si parla del «riassunto di tutte le predizioni della fine» (p. 179), frase che riguarda l’Apocalipsis di Leverkühn, ma che si può riferire benissimo anche al DF.

[10]. Cfr. Mathieu (1983), pp. 42-64.

[11]. Cfr. gli importanti lavori di Koopmann (1983; 1991). Ma eccede forse chi legge il DF come un commento al naufragio del vecchio romanzo, e pensa che l’uso dei frammenti manifesti l’impossibilità dell’opera compiuta.

[12]. Non stupisce perciò il fatto che in questo romanzo le autocitazioni siano imponenti: da vari punti di vista Mann ridiscute le sue posizioni precedenti, al punto che il DF può essere considerato la prosecuzione della Zauberberg. Ma una differenza essenziale fra le due opere sta nel fatto che la sgm ha definitivamente cancellato ogni ipotesi di umanesimo tedesco e di arte assoluta.

[13]. Nella medesima lettera si parla del «patto col diavolo» stretto dalla Germania «ubriacata» da Hitler, e si dice che «un romanzo che fosse ispirato ai dolori degli ultimi anni, dalla sofferenza per la Germania, doveva fatalmente avere per oggetto questa orrida promessa» (Lettere, p. 590).

[14]. È interessante il confronto con i discorsi radiofonici coevi, intitolati Deutsche Hörer!, così pieni di retorica e nello stesso tempo così violenti contro le belve naziste, quasi che la violenza verbale fosse riservata a questo spazio tutto pubblico. In questo àmbito, le parole di speranza per una rinascita della Germania, per un suo «ritorno all’umanità», non possono mancare (si veda il discorso del 10 maggio 1945), ma certo non corrispondono al pensiero di Mann nella sua interezza.

[15]. All’opposto di una famosa frase (su cui poi ha scritto Milan Kundera) apposta da Beethoven stesso sopra i due temi dell’ultimo movimento del quartetto in fa maggiore, op. 135: «Muß es sein? Es muß sein». Certo la somiglianza può essere casuale, ma i riferimenti all’ultimo Beethoven, e alla Nona in particolare, sono espliciti. Sui riferimenti musicali nel DF cfr. Fetzer (1990), specie pp. 115-26 sulla Lamentatio.

[16]. Cfr. Entstehung, p. 227; cfr. poi Givone (1995), pp. 89-90.

[17]. Freud (1929), p. 280.