Di Alberto in: Proposte

Romanzi di Finisterre 2


Capitolo sul Tamburo di latta da Alberto Casadei, Romanzi di Finisterre (Roma, Carocci, 2000). Per le indicazioni bibliografiche, si veda la categoria Discussioni

 

3

Menippea affabulatoria, grottesca e tragica:

Il tamburo di latta di Günter Grass

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.1.1. La guerra in Die Blechtrommel (1959; trad. it. Il tamburo di latta, 1962) è rappresentata impiegando il grottesco[1]. Così si evince dalla sua prima apparizione nel testo, lo scontro per la difesa del palazzo delle Poste a Danzica.

Anche se il capitolo La posta polacca (Die polnische Post) comincia solo qualche pagina oltre (pp. 214 ss.), l’episodio prende avvio con il viaggio in tram di Oskar Matzerath, il protagonista-narratore rimasto bloccato nel suo sviluppo all’età di tre anni, e dello zio (ma presunto padre) Jan Bronski, per raggiungere appunto il palazzo delle Poste, ormai assediato da squadre filonaziste, la vigilia del 1° settembre 1939 (pp. 211-4). Oskar, che in realtà ha già quindici anni, è interessato a far riparare il suo tamburo di latta dal portiere Kobyella, mentre Jan spera, essendo accompagnato da un bambino, di non dover entrare nell’edificio per difenderlo, come il suo ruolo di segretario gli imporrebbe: ma i due vengono fatti entrare, e, passata la notte, sono coinvolti nello scontro. Da qui in avanti si accentuano i toni antieroici e grotteschi del testo: gli aspetti drammatici di questa lotta, che rappresenta una riduzione in scala di quella che, lo stesso giorno, si svolgeva nell’intera Polonia per la difesa dall’aggressione nazista, vengono segnalati quasi di sfuggita, mentre vengono focalizzati quelli che riguardano il comportamento del nano Oskar, molto più interessato al suo tamburo che non alle sorti della patria (p. 219):

 

Già mi pentivo di aver sistemato il mio tamburo in una delle ceste colme di posta che per il momento era impossibile recapitare. Il sangue di quei portalettere e impiegati degli sportelli, dilaniati e bucherellati, non sarebbe filtrato attraverso i dieci o venti strati di carta, tingendo tutto il mio tamburo di un colore che fino a quel momento aveva conosciuto solo grazie alla vernice? / Cosa aveva in comune il mio tamburo col sangue della Polonia? [Was hatte meine Trommel mit dem Blute Polens gemeinsam!].

 

Cosicché del tutto sproporzionata risulta la seguente affermazione: «soltanto Oskar pattugliava, inerme e privo del tamburo, in attesa di eventi storici» (p. 216); e, d’altronde, l’Oskar-narratore confessa più volte di mentire o almeno esagerare nel suo racconto.

Ribadita la grottesca priorità del tamburo rispetto alla patria («qui non è in ballo la Polonia – mi dissi – bensì il mio tamburo ammaccato [es geht gar nicht um Polen, es geht um mein verbogenes Blech]», p. 220; e cfr. anche p. 226: «Che cosa m’importava della Polonia? Che cos’era, la Polonia?»), il narratore descrive una parodica invasione («Subito dopo lo [il locale dei pacchi postali] avevano già invaso, passando quindi nell’ufficio accettazione pacchi, e già era aperta la porta verso il corridoio, che conduceva al salone degli sportelli», 220), con il ferimento di uno dei difensori; in séguito Oskar va in cerca dello zio, e lo trova in una camera per bambini, piena di giocattoli, compreso un tamburo nuovo (pp. 221-5). Qui lo zio dà prova di tutta la sua viltà tentando di evitare ogni azione difensiva, e viene di continuo schernito da Kobyella, che però alla fine rimane ferito: «una granata si era permessa uno scherzo gigantesco [Riesenspaß], risero i mattoni volando in pezzi e i cocci di vetro ridotti in polvere e l’intonaco diventato farina, e si fendette il legno come sotto i colpi di un’ascia, tutta la stanza dei bambini saltellò buffamente su una sola gamba» (p. 228). Il mondo infantile viene distrutto, e in ciò, metaforicamente, si potrebbe vedere un accenno alla distruzione portata dalla guerra; senonché questa sciagura pare avere, per Oskar, il solo effetto di fargli arrivare tra le mani il tanto desiderato nuovo tamburo.

Conclusasi questa parte, la scena si sposta in una stanza priva di finestre, nella quale vengono radunati i feriti. Per trasportare Kobyella viene chiesto l’aiuto di Viktor Weluhn, portalettere molto miope, che, come vedremo, ricomparirà quasi alla fine del romanzo; con lui, Jan Bronski conversa brevemente, e i due usano tutte le frasi più retoriche della propaganda, a proposito della difesa della Polonia da parte di Francia e Inghilterra («Proprio ieri Rydz-Smigly ha detto alla radio: “Abbiamo la garanzia: se scoppia la baraonda tutta la Francia balzerà in piedi come un sol uomo”», p. 230: il sarcasmo prevale nettamente). Giunto nella stanza, Jan, ancora in buone condizioni fisiche ma sempre più sconvolto dal terrore, decide di giocare a skat, e coinvolge il moribondo Kobyella e il piccolo Oskar, che rivela allo zio-padre le sue doti intellettive, sempre tenute nascoste agli adulti. Il narratore intreccia la battaglia giocata a carte con la battaglia reale («skat, dunque! E giocammo a skat finché la difesa non crollò [Skat! Bis zum Zusammenbruch der Verteidigung spielten wir Skat]», p. 232), ma la più importante rimane in secondo piano, quasi che le granate, le morti e infine la resa dei difensori non fungessero che da contrappunto al gioco. Al termine della lotta, un’altra azione metaforica e grottesca: Jan viene invitato da Weluhn a fuggire, ma invece, fuori di sé, egli rimane nella stanza che sembra ormai «confinare porta a porta con l’inferno» (p. 238), e comincia a costruire un castello con le carte da gioco, che viene fatto crollare dai filonazisti, penetrati violentemente nel rifugio: «Misero in moto l’aria, sollevarono un turbine di vento e fecero crollare il castello di carte. Non avevano nessuna sensibilità per questo genere di architettura. Loro giuravano soltanto sul cemento armato. Costruivano per l’eternità [Die schworen auf Beton. Die bauten für die Ewigkeit]» (p. 239, corsivo nostro; vedremo oltre che questa definizione non è casua-le). Jan, in stato confusionale, viene portato fuori e separato dal nipote.

La battaglia è finita, ma il narratore Oskar commenta il suo racconto, facendo notare che come al solito è riuscito «se non a mentire, almeno ad esagerare [zu übertreiben, wenn nicht zu lügen]» (p. 240). Questo tipo di autocommento s’inserisce bene nel modo narrativo dominante del TL, che può essere confrontato con la satira menippea, con il genere picaresco, o, in qualche misura, coi racconti di tipo sterniano (cfr. par. 2.1); è un commento che diminuisce ulteriormente la drammaticità dell’episodio, ancora una volta ricondotto ad una sorta di sfondo su cui si svolge la quête fondamentale, quella del tamburo. Oltretutto Oskar tende ad autoaccusarsi di colpe abominevoli, specie quando confessa di aver fatto di tutto per staccarsi da Jan, e niente per salvarlo, e comunque fa capire di sentirsi un autentico uccisore del padre (cfr. p. 242). Ma questo senso di colpa, che è caratteristico del protagonista, riguarda anche le vicende della sgm (e allora la colpa può essere confrontata, con tutte le cautele, con quella del giovane Grass che si è arruolato nell’esercito tedesco: si veda infra). Non a caso il passo conclusivo dell’episodio è quello in cui si ricorda la caduta della Polonia: «la Polonia non era ancora perduta, ma presto sarebbe stata perduta, e infine, dopo i famosi diciotto giorni, la Polonia fu perduta, anche se ben presto risultò che la Polonia era sempre non ancora perduta» (p. 245)[2]; e, subito dopo, si rievoca il massacro della cavalleria polacca, lanciata contro i panzer tedeschi: «E verso corazze di grigio acciaio cavalcarono dunque gli squadroni e diedero al purpureo tramonto più intensi riverberi rossi» (p. 246).

Il commento di Oskar suona in questo caso amaramente ironico, e risulta pieno di partecipazione emotiva, pur fingendo il contrario (ibid.):

 

Si vorrà perdonare a Oskar questo finale liricheggiante della sua descrizione di una battaglia campale. Sarebbe forse più opportuno che io indicassi le cifre delle perdite subite dalla cavalleria polacca e riportassi qui una statistica, che costituirebbe una commemorazione seccamente penetrante della cosiddetta campagna di Polonia. Oppure, a richiesta, potrei anche porre qui un asterisco, annunciare una nota a pie’ di pagina e lasciare invariato il poemetto.

 

Non si riconosce in questo passo soltanto una dissacrazione dell’eroi-smo o una descrizione umoristica dell’inizio della sgm: si comincia ad intravvedere, da un punto di vista freudiano, un’opera di rimozione. La prima descrizione della guerra appare insomma come un continuo tentativo di incolparsi di altro rispetto alla colpa autentica. Nel TL alla sgm ci si riferisce sempre in modo obliquo, magari metaforico o metonimico, come nei casi sopra indicati: ma la sua presenza si coglie proprio per questo più inquietante, e l’azione caotica del romanzo sembra voler nascondere il suo nucleo angosciato, che riemerge in punti insospettati, secondo la più classica delle formazioni di compromesso.

 

1.1.2. L’episodio ora esaminato trova una sorta di continuazione nella parte finale del testo, precisamente nel penultimo capitolo, in cui viene riportata la deposizione di Gottfried von Vittlar, relativa al processo per assassinio intentato contro il suo compagno Oskar. In essa si dice che i due amici, mentre viaggiavano su un tram da loro rubato (si pensi all’inizio dell’altra vicenda), incontrarono Viktor Weluhn, prigioniero di due agenti incaricati di fucilarlo, ad esecuzione di un ordine del 1939. Oskar, per salvare il portalettere semicieco, riprese il suo tamburo ed iniziò a suonare le note dell’inno irredentista «Ancora la Polonia non è perduta» (p. 576; e si veda supra). Ma all’improvviso ecco una scena fantastica (p. 577), quasi che erompessero

 

dal suolo tanti cavalli e cavalieri [...] uno squadrone di ulani polacchi [...] fluttuava [...] sotto la luna, forse veniva dalla luna, [...] e sembrava che non fosse né carne né sangue, [...] silenziosa eppure tuonante, disincarnata, esangue, eppure polacca [si noti la descrizione “lemuresca”: ohne Laut, dennoch donnernd, fleischlos, blutlos und dennoch polnisch...]: presero con sé soltanto il povero Viktor e anche i due boia, e si dispersero poi nell’aperta campagna sotto la luna – perduta, non ancora perduta [verloren, noch nicht verloren], al galoppo, verso oriente, verso la Polonia, dall’altra parte della luna.

 

Non è difficile vedere in questa scena una sorta di vendetta demoniaca, perpetrata dallo squadrone della cavalleria polacca mandato al massacro contro i panzer tedeschi (e si veda anche poco oltre: «richiamare per un’estrema carica una cavalleria da tempo annientata [da längst verweste Reiterheere zur letzten Attacke überreden konnte]», p. 577, corsivo nostro). D’altro canto, in questa scena di grande efficacia si coglie chiaramente il senso di una giustizia infernale, se non divina, la quale va a punire i colpevoli di quella guerra, che pure era stata rappresentata come nient’altro che un gioco grottesco. Il tempo della sgm e quello del dopoguerra vengono così uniti strettamente: la seconda scena citata costituisce il completamento della prima. Vedremo tra breve altri aspetti del nesso colpa/espiazione, che si ritrova in tutto il romanzo.

 

1.2. Nel corso del TL si fa abbondantemente uso del tono grottesco mentre si raccontano le vicende del nazismo. Un episodio tra i più celebri è quello del capitolo La tribuna (Die Tribüne, pp. 102-18). Siamo nel 1934, quando cominciano «i tempi delle fiaccolate e delle sfilate davanti alle tribune» (p. 109): ma Oskar, ormai amico del nano Bebra, suo maestro spirituale, sa che gli uomini lillipuziani come lui non dovrebbero mai stare davanti alle tribune. Un altro nano gobbo, Löbsack, è riuscito a diventare uno dei capi del partito nazista, e organizza manifestazioni, cui Matzerath, il padre “ufficiale” di Oskar, partecipa regolarmente. Le situazioni paradossali abbondano nel testo: si comincia con un incontro dei ritratti di Hitler e Beethoven, che «si guardavano, si scrutavano, eppure non riuscivano a rallegrarsi della vista» (p. 110), e si prosegue con una scommessa di Löbsack, in virtù della quale si poteva «dedurre che una gobba può formare la base ideale per un’ideologia [woraus man schließen Kann, das ein Buckel die ideale Grundlage einer Idee bildet]» (p. 111).

Ma il culmine del grottesco viene raggiunto quando Oskar si va a nascondere sotto la tribuna nel Campo di Maggio, perfettamente suddivisa tra le varie organizzazioni naziste, e perciò «chiaramente simmetrica [eine betont symmetrisch angeordnete Tribüne]» (p. 112). Ora è questa simmetria a far scattare l’impulso anarchico, che è poi quello più tipico di Oskar, che prima va a vedere la tribuna da dietro (cfr. p. 113), svelandone la miseria, poi, da sotto, comincia a suonare il suo tamburo per confondere le musiche di marcia della manifestazione (pp. 114-5):

 

Già avevo il tamburo nella giusta posizione. Con eterea lievità feci giocare le bacchette nelle mie mani e, con un’infinita delicatezza nelle articolazioni delle dita, trassi dalla mia latta un sapiente, gaio ritmo di valzer, al quale, evocando Vienna e il Danubio, diedi un graduale crescendo; finché, sopra, il primo e il secondo tamburo dei lanzichenecchi cominciarono a trovarci gusto e anche i tamburi piatti dei ragazzi più anziani aderirono più o meno abilmente al mio modello [...] il popolo ci trovava gusto, al mio valzer, se lo sentiva nelle gambe, era preso anche da un’irresistibile smania di ballare [Ma Löbsack] era abituato ad essere incanalato verso la tribuna da marce rettilinee [mit gradliniger Marschmusik]. A lui le gaie spensierate note del valzer toglievano la fede del popolo [den Glauben ans Volk].

 

Oskar propone poi addirittura il ritmo di charleston della canzone Jimmy the Tiger, e il popolo finisce coll’allontanarsi dal Campo di Maggio e col disperdersi (cfr. pp. 116-7).

L’intera società polacca filotedesca (rappresentata, metonimicamente, dal popolo di Danzica radunato per le manifestazioni degli hitleriani) viene quindi coinvolta in un movimento di ballo che potrebbe minare la serietà del nazismo. Oskar diventa una sorta di pifferaio di Hamelin, che crea un’asimmetria (parola chiave per Grass) e un controtempo, rispetto alla simmetria e al “tempo giusto” del regime. Oppure, come l’Oskar narratore ci dice, la sua azione si può paragonare a quella del profeta Giona, che deve avvisare Ninive-Danzica della distruzione imminente (cfr. p. 117 e anche p. 114, dove si legge una frase di chiara ascendenza biblica: «Adesso, o mio popolo, attento a me, popolo mio! [Jetzt mein Volk, paß auf, mein Volk!]»): salvo poi smentire e dissacrare questo paragone religioso – come sono dissacrati, e però tanto di frequente proposti, i tanti altri paragoni biblici nel TL.

Tuttavia questa forma di anarchia (per quanto messa in atto più volte da Oskar) è stata impotente a fermare l’organizzazione nazista. Esplicito è il giudizio dato dall’Oskar narratore: «Nulla è più lontano dal mio pensiero che vedere in me – per aver guastato sei o sette manifestazioni e impedito di tenere il passo a tre o quattro sfilate – un combattente della resistenza [einen Widerstandskämpfer]» (p. 118). In realtà, non c’è stata (o non è bastata) una resistenza iniziale ad Hitler, non c’è stata un’opposizione alla guerra, che si è risolta in una sciagura collettiva per il popolo polacco e per quello tedesco. Il nazismo poteva anche essere una «buffonata», ma le demistificazioni non sono state in grado di fermarlo: anche di questa colpa deve dar conto il romanzo di Grass[3].

 

1.3. Del periodo bellico il TL racconta e parodizza soprattutto gli effetti dell’ideologia nazista sulla società di massa. A Grass apparentemente non importano le battaglie o le lotte degli eroi, ma piuttosto i saccheggi, le distruzioni di case civili, le deportazioni. I riferimenti alla sgm sono numerosi, collocati tuttavia sullo sfondo dell’azione, non al centro. Si tratta però, come si è già accennato, di una forma di rimozione freudiana, perché in realtà l’esperienza della guerra esercita sull’antieroe Oskar un influsso determinante, che si coglie facilmente nel suo romanzo-autobiografia.

Il protagonista narratore si rappresenta dapprima come ex lege; poi come matto fra i borghesi, cioè artista (cfr. pp. 458-9): comunque, la sua vita risulta segnata dalla sgm. I suoi padri, Bronski e Matzerath, muoiono all’inizio e alla fine della guerra (non senza complicità di Oskar: oltre a p. 242, già citata, cfr. pp. 394-5 e 404-5). Le allusioni agli avvenimenti bellici sono disseminate in tutte le vicende di Oskar: ad esempio, quando viene sottoposto ad una disinfezione da parte del signor Marius Fajngold, apprende «dei carri merci pieni di iodoformio, cloro e lisoformio che avevano spruzzato sparso e irrorato quando [Fajngold] era addetto alla disinfezione del lager di Treblinka» (p. 413); segue una rapida quanto drammatica narrazione di una rivolta al campo di concentramento, in cui è coinvolto anche Marius, che ricorda ancora di aver irrorato un numero non precisabile di morti: ma Oskar finisce con l’annoiarsi (cfr. p. 414). E si veda anche la descrizione, fatta in apparenza con il distacco e il cinismo del “sopravvissuto”, della migrazione postbellica di Oskar (dall’Est all’Ovest): le scene di violenza sono normali, e stravagante è il vecchio socialdemocratico che prova, dignitosamente, a difendersi (pp. 419 ss.).

Insomma, sebbene nel TL la sgm per lo più non sia rappresentata direttamente, si colgono le sue conseguenze: soprattutto, per Oskar essa è la causa della perdita della patria casciubica, e, da ultimo (pp. 582 ss.), anche dell’angoscia della morte, connessa all’ineliminabile senso di colpa. Un altro episodio servirebbe a chiarire definitivamente i termini del problema, e a legare grottesco, assurdo e condizione di chi ha partecipato alla sgm dalla parte degli assalitori; ma prima di esaminarlo, cerchiamo di analizzare meglio alcuni aspetti evidenziati, a cominciare da quelli narrativi.

 

2.1. Sui modelli del TL è stato scritto molto (cfr. nota 1). Si colgono evidenti riferimenti a Sterne, sia nei singoli episodi (ad esempio in quello riguardante la nascita di Oskar, cfr. pp. 38-40), sia nella strategia narrativa (numerosissimi sono i commenti del narratore, che, oltre a infarcire il racconto di diversioni, come si è ricordato di frequente smentisce o corregge il già detto). Sintomatica la famosa dichiarazione iniziale di (anti)poetica (p. 7):

 

Si può cominciare un racconto dal mezzo e, procedendo arditamente innanzi e indietro nel tempo, fare una gran confusione [...]. Ho anche sentito dire che si fa un’ottima impressione di modestia iniziando col sostenere fermamente che: non ci sono più eroi da romanzo [...]. Tutto ciò può essere vero e giustificato. Quanto a me, Oskar, e al mio infermiere Bruno, vorrei però che fosse chiaro questo: ambedue siamo degli eroi [Wir beide sind Helden].

 

Tuttavia va sottolineato che la narrazione del TL è nel complesso lineare (si segue cioè l’evoluzione, o meglio l’anti-evoluzione di Oskar): di fatto, il grottesco si fonda non tanto sulla strategia (meta)narrativa, quanto sul contenuto di realtà, assurda e tragica, che appunto si deve rappresentare.

Fondamentale risulta perciò il modello di Grimmelshausen: Oskar è un picaro, che va a conoscere mondi diversi (in gran parte sconvolti dalla sgm, che svolge una funzione simile a quella della Guerra dei trent’anni nel Simplicissimus), e che, dopo aver aumentato la sua conoscenza, si ritira dal mondo, così come il suo antenato: in questo caso però non si tratta di un eremitaggio volontario, bensì dell’internamento in un manicomio, dove le sue potenzialità trasgressive vengono poste sotto controllo. Il picaro, o addirittura il bambino-nano, nella società colpita dalla guerra è soggetto ad una violenza che tende ad impedirgli di esprimere la sua natura.

È pure possibile considerare il romanzo di Grass come una carnevalizzazione del periodo storico che ha al suo centro la sgm. Al fondamentale modello del Simplicissimus va affiancato quello di Rabelais, ormai legato, bachtinianamente, alla tradizione della satira menippea. Su questa filiazione molto ci sarebbe da dire (e da discutere, data la sua scarsa coerenza storica), ma qui interessa notare che, secondo Bachtin, la funzione principale della menippea è quella di restituire un intero mondo (in Rabelais, quello folklorico), in cui alto e basso vengono, grottescamente, accostati: nel TL, questa potenzialità viene sfruttata anche per rappresentare la completa confusione della società nel periodo bellico e postbellico. Non più un gigante ma un nano percorre il mondo, davvero sconvolto, cioè rovesciato: la prospettiva non è quindi quella di un mondo fertile e sempre in crescita, bensì quella di un mondo ridotto a macerie, in cui prevale non la dissacrazione del riso ma la tragicità che scaturisce dal grottesco.

Focalizzati questi modelli attivi nel TL, possiamo soffermarci sull’aspetto più propriamente romanzesco. Già Enzensberger aveva parlato, all’uscita dell’opera di Grass, di  «romanzo di non-formazio-ne»[4], ossia di anti-Wilhelm Meister: in effetti, alla base della contro-educazione di Oskar sta proprio Goethe, però paradossalmente legato a Rasputin (cfr. pp. 83 ss.). L’unione indissolubile di apollineo e dionisiaco in ogni essere umano è ratificata da Oskar: «Di Rasputin solo non mi fidavo, poiché ben presto compresi che in questo mondo a ogni Rasputin corrisponde un Goethe, e del resto un Rasputin implica un Goethe e un Goethe un Rasputin, e perfino lo crea, se necessario, per poterlo poi condannare» (p. 86). A questa si può accostare l’altra unione ossimorica propria di Oskar, che si descrive ora come Satana ora come possibile successore di Gesù (cfr. ad es. pp. 515 e 359), e fa capire in più circostanze che il rapporto dissacratorio con la religione è importante nella sua biografia (appunto perché dissacratorio).

Questi elementi contraddittòri rimangono conciliati fino a quando Oskar resta il bambino-nano che rifiuta la società degli adulti, dominata dal nazismo e dalla sua educazione simmetrica e lineare. Ma, nel seguito del romanzo, la non-formazione comporta per il protagonista una progressiva perdita di identità; ciò viene evidenziato quando si realizza la momentanea ripresa del suo sviluppo, significativamente iniziata ai funerali del padre Matzerath, subito dopo il crollo del nazismo: ossia, dopo la scomparsa definitiva degli educatori. Allora il falso bambino non è più né nano né uomo normale: «Questa è dunque la statura di Oskar! Quasi troppo per un nano, uno gnomo, un lillipuziano [So groß ist Oskar also! Für einen Zwerg, Gnom, Liliputaner fast zu groß]» (p. 409). Il suo ulteriore ritorno all’infanzia nel letto-gabbia del manicomio coincide con l’estromissione dalla società nella quale aveva alla fine cercato di integrarsi: ma l’integrazione non è possibile, e Oskar sente di dover espiare le colpe non scontate. Da questo punto di vista (complementare a quello espresso poco sopra), l’internamento in un manicomio criminale, condizione che fin dall’inizio del TL viene dichiarata («Non lo nego: sono ricoverato in un manicomio», p. 5), rappresenta per lui una forma di sicurezza insieme sociale e psicologica[5].

Va a questo punto riconsiderato il fatto che in ogni scelta di Oskar prevale la propensione all’anarchia, perché ciò consente di porre in rilievo il rifiuto più importante che contraddistingue la sua non-forma-zione, ossia quello della “grande storia” (nel senso di Braudel), e soprattutto della sgm in quanto lotta eroica. Nel TL domina la cronaca, contano le ragioni della piccola storia, vissuta dai poveri diavoli come Oskar (p. 253):

 

Mentre la Storia, in un succedersi di altisonanti comunicati straordinari, avanzava irresistibilmente come un veicolo dagli ingranaggi ben lubrificati, calpestando guadando sorvolando tutte le strade, i corsi d’acqua e gli spazi aerei d’Europa, i miei affari – che si limitavano soltanto a battere, fino a ridurli in rottami, tamburi laccati infantili – arrancavano, si trascinavano a stento, non progredivano affatto[6].

Sotto questo aspetto si possono vedere, ideologicamente, le più nette consonanze con Döblin, che secondo Grass è un maestro di tecnica narrativa, per l’accumulo di elementi linguistici grezzi, per il montaggio discontinuo di azioni e per la descrizione asimmetrica dell’esistente (non trova corrispondenza però l’uso del monologo interiore inframmezzato al narrato, fondamentale per la tessitura di Berlin Alexanderplatz). Döblin è il narratore di un’altra fase postbellica, di una Berlino non meno segnata dalla violenza (i riferimenti alla guerra, in quanto prova di ogni azione umana, punteggiano il testo, e soprattutto il suo finale); ma soprattutto, è l’autore che insegna a diffidare della Storia, attraverso l’uso volutamente distorto dell’oggettivazione epica, su cui ha scritto Benjamin (tuttavia, la dominante del romanzo di Döblin non è quasi mai quella grottesca).

Insomma, la biografia di Oskar è costituita da un susseguirsi di vicende che possono rappresentare un differimento della resa dei conti per le colpe sue e di tutti coloro che avevano accettato il nazismo. Il complessivo antistoricismo del TL finisce col ricondurre ad un confronto con la storia. Anche in questo senso risulta assai importante l’analisi di un episodio, che avevamo preannunciato e che è giunto il momento di proporre.

 

2.2.1. L’episodio porta il titolo Visita al cemento armato, ovvero: Mistico barbarico annoiato (Beton besichtigen – oder mystisch barbarisch gelangweilt, pp. 326-44), ed è anch’esso completato da uno successivo, Sul Vallo Atlantico, ovvero: I bunker non riescono a liberarsi del loro cemento (Am Atlantikwall – oder es können die Bunker ihren Beton nicht loswerden; pp. 536-52). Nella prima parte, Oskar e il suo gruppo di nani-attori, con il maestro Bebra e l’amata Roswitha, si recano a visitare la linea di bunker del Vallo Atlantico, in particolare quelli costruiti nella zona della Normandia, proprio alla vigilia dello sbarco alleato. Nella seconda, Oskar torna a visitare quegli stessi luoghi dopo la fine della guerra. Analizziamo in dettaglio.

 

2.2.2. All’inizio dell’episodio si legge un resoconto degli spettacoli tenuti dal gruppo di Bebra nella Francia occupata, e soprattutto dello show di Oskar, che consisteva nella frantumazione di oggetti artistici francesi di varie epoche, secondo criteri storico-culturali (cfr. p. 327). Vengono cioè ribaditi due caratteri fondamentali del personaggio: il suo disprezzo per la storia, qui metaforicamente distrutta, e la sua vocazione teatrale[7].

Non a caso quindi il seguito dell’episodio assume la forma di un dialogo teatrale (pp. 331-42), con precise didascalie. Si narra della visita al bunker Dora sette nella zona di Caen, che il gruppo di Bebra compie nel giugno 1944; in quel bunker si trovano il caporal maggiore Lankes e il tenente Herzog. Viene descritta dapprima la campagna di Normandia, poi la zona costiera, infine, quasi facesse ormai parte integrante del paesaggio, il bunker stesso: «aveva la forma di una tartaruga appiattita [der die Form einer oben abgeflachten Schildkröte hatte], e con feritoie, spioncini e parti metalliche di piccolo calibro guardava verso l’alta e la bassa marea» (pp. 330-1).

È opportuno ricordare cosa significavano i bunker del Vallo Atlantico per la propaganda nazista. Albert Speer, nelle sue Memorie del Terzo Reich, testimonia che le installazioni furono «studiate e decise da Hitler fino nei minimi particolari»: furono usati «13.302.000 mc di cemento per un valore di 3,7 miliardi di marchi, sottraendo agli armamenti 1,2 milioni di tonnellate di ferro» (p. 458 e fig. 18). Si trattò dunque di uno sforzo immane, per costruire un’opera difensiva del tutto inutile, e formata come di infinite bare, che angosciano alla sola vista.

In questo episodio del TL protagonista implicito diventa appunto il cemento armato. Già Bebra, prima della visita, aveva preannunciato l’effetto che esso avrebbe prodotto: «domani si va a visitare il cemento armato, e già dopodomani ve lo sentirete stridere tra le labbra, e vi toglierà la voglia di baciarvi» (p. 329). Poi Herzog e Lankes fanno capire di non aver pensato ad altro che al cemento da quando sono in quella zona: da anni non c’è nulla da segnalare, e loro non fanno che costruire un bunker dopo l’altro. A questo punto Bebra chiede una  grottesca professione di fede ad Herzog: «E lei, tenente, crede al cemento? [Und der Herr Oberleutnant glaubt an Beton?]» (p. 331; si ricordi quando detto alla fine dell’episodio della Posta: «Loro giuravano soltanto sul cemento armato», p. 239). Herzog così risponde: «Credere non è la parola appropriata. Noi qui non crediamo quasi più a nulla [Das wäre wohl nicht das geeignete Wort. Wir glauben hier so ziemlich an nix mehr]» (ibid.).

Il dialogo prosegue con toni che diventano apertamente grotteschi, specie quando si dice che, per superstizione (una sorta di ultima fede), nel cemento vengono pressati dei cagnolini, perciò ormai scomparsi dalla zona di Caen: «Vuol dire che siamo molto diligenti [So fleißig sind wir]» (p. 332), commenta  Lankes, e il commento suona davvero, per il lettore, come un sarcastico elogio alle opere di rastrellamento dei nazisti. Il grottesco coincide sempre più col tragico.

Poi il discorso si sposta sugli strani ornamenti che si trovano all’ingresso dei bunker: mosaici di conchiglie e figure ornamentali sul cemento, fatte dai soldati per distrarsi. Bebra parla col caporale Lankes, che rivela di essere un pittore, però di quelli che dipingevano «un po’ troppo sbilenco [zu schräge]» (p. 334), e che quindi erano stati emarginati dall’arte ufficiale nazista. Si discute un poco delle tecniche usate dal caporale (pp. 334-5), dopodiché Lankes spiega la sua decisione di decorare i bunker col fatto che essi garantiscono l’eternità: «i bunker resteranno, perché i bunker restano sempre, anche se tutto il resto sarà kaputt [dann bleiben die Bunker stehen, weil Bunker immer stehen, auch wenn alles andere kaputtgeht]» (p. 335).

In tutto questo passo viene toccato il grande tema del rapporto tra arte e guerra, ma in termini nient’affatto teorici o epocali (come nel DF), bensì terribilmente pragmatici, adatti a chi può fare arte soltanto col cemento armato. Dunque, la sopravvivenza dopo la più grande guerra di tutti i tempi è affidata all’“arte nel bunker”: nella sua opera dal titolo «Mistico, barbarico, annoiato» Lankes esprime al meglio lo «spirito del nostro secolo» (p. 336): l’ironia sembra qui esprimere pienamente la verità. È il Vallo Atlantico, assurda opera di fortificazione, che rappresenta non solo la sgm, ma anche il destino dell’arte.

Dopo questa parte di eccezionale importanza per l’intero TL, ne segue una che preannuncia la situazione del dopoguerra: infatti Oskar e gli attori di Bebra compongono una poesia in cui si parla del periodo bellico[8], ma che è scandita dal ritornello: «al Biedermeier stiamo ritornando! [wir nähern uns dem Biedermeier!]» (pp. 337-8). Tornerà quindi il dominio della piccola borghesia (profezia già avveratasi, quando esce il TL nel 1959); intanto però è il cemento a segnare tutti i momenti della vita degli uomini: «[Bebra] Amici, banchettiamo sul cemento. Non possiamo avere una base migliore» (p. 338).

L’ultima parte della scena (anche in senso teatrale) è costituita da un altro avvenimento: sulla spiaggia appaiono cinque suore, fra le quali la novizia Agneta, che, come fanno abitualmente, passeggiano con i loro ombrelli aperti. Ma Herzog, ligio soldato, sospetta che si tratti di nemici travestiti, e ordina a Lankes di sparare con la mitragliatrice. Didascalia: «[cinque suore con ombrelli volano verso il cielo» (p. 342). La completa assurdità di questo assassinio fa risaltare ancora di più quella implicita nell’ultimo dialogo tra Bebra e Lankes, dove non si ribadisce altro che l’eternità del cemento, che è destinato a significare per sempre la tragicità grottesca della guerra: «[Bebra] E se un giorno non ci fosse più cemento? [...] [Lankes] Ma quello è immortale [...]. [Bebra] Ma questo cemento lo visiteranno ancora fra mille anni [Und wenn es nun eines Tages keinen Beton mehr gibt? – Der ist unsterblich  – Den Beton jedoch werden sie noch in tausend Jahren besichtigen]» (p. 342).

È lecito parlare di una funzione beckettiana di questa scena teatrale. Non che si riscontrino influssi diretti (anche se Grass era a Parigi negli anni in cui venivano allestite le prime opere di Beckett), ma è comune la volontà di rappresentare l’assurdo. Se vogliamo distinguere, si potrebbe dire che il grottesco-tragico di Beckett tende al “meta-fisico”, mentre quello di Grass all’“ipo-fisico”; i personaggi di Beckett vivono dopo la fine della storia, quelli di Grass dentro la storia, anzi, sotto di essa, che, per quanto rifiutata, li schiaccia con la sua lunga durata.

 

2.2.3. Veniamo alla prosecuzione dell’episodio, ambientata nel dopoguerra. I personaggi coinvolti nella prima parte sono profondamente cambiati[9]: Oskar ritrova Lankes, ormai pittore con un proprio atelier, e insieme decidono di tornare nella zona dei bunker presso Caen (pp. 540-1). In Normandia tutto sembra tornato normale, ma il narratore osserva che, se si voleva preparare una pubblicità turistica, «non si sarebbe dovuto far figurare sulla carta patinata nessuna traccia dei danni di guerra ancora evidenti che contrassegnavano e deturpavano ogni villaggio» (p. 541). Si coglie subito la volontà di rimuovere il passato, che contraddistingue tutto il periodo del dopoguerra.

I due personaggi-attori si recano al bunker Dora sette e lo ripuliscono. Dopodiché viene allestito un altro banchetto, ma costituito da un solo merluzzo pescato da Lankes: anche la mensa risulta all’insegna della povertà postbellica (e degna di Finale di partita): «Costruimmo la nostra tavola con vari bidoni vuoti e con un cartone catramato ripiegato più volte, posto sopra di essi in modo da sporgere in fuori» (p. 542). Durante questo pranzo da picari affiorano molti ricordi relativi allo sbarco degli Alleati, fino a quando, come evocato, ricompare il tenente Herzog (pp. 543-4).

Egli vuole «ispezionare circostanziatamente» il cemento armato del bunker: compie queste azioni come un fantasma o un povero mentecatto, ossessionato dalla memoria non cancellabile della sua colpevolezza. Il voler ricordare è contrario allo spirito del dopoguerra: di qui l’osservazione infastidita di Lankes: «Accidenti, Herzog, non riesco a capire cosa vuole! Frugare qui intorno al cemento armato! Ma è già da un pezzo passé quello che allora era attuale [Ist doch längst passé, was damals noch aktuell war]» (p. 545).

Lankes divide il mondo in attuale e passé, e così rappresenta benissimo l’uomo rinnovato, che ha rimosso senza traumi i misfatti del nazismo; viceversa, «il tenente in pensione trovava che niente era passé, che il conto non era ancora chiuso, che non si finiva mai di assumere le proprie responsabilità davanti alla Storia» (ibid.). Herzog è dunque un’«ombra», una minaccia per la coscienza, e Lankes lo scaccia in malo modo: alla fine, il tenente «si allontanò, imprecando e scongiurando tutti gli spiriti della storia che Lankes poco prima aveva definito passé [alle historischen Geister beschwörend, die Lankes zuvor als passé bezeichnet hatte]» (p. 545).

Dopo l’apparizione di un vivo-morto (simbolicamente, la condizione di tanti che sono stati “marcati” dalla sgm), se ne registra un’altra, questa volta di una morta-viva, ossia della novizia Agneta, che appare sulla spiaggia «rosa con molto nero intorno», cosa, dice Oskar, «che non mi meravigliò abbastanza perché la potessi considerare un miracolo»  (p. 546). Agneta viene poi sedotta da Lankes nel bunker, e a quel punto Oskar ricorre al suo tamburo «per cercare una via d’uscita da quel paesaggio di cemento armato, da quel mondo di bunker, da quella verdura chiamata asparagi Rommel [und begann trommelnd aus dieser Betonlandschaft, aus dieser Bunkerwelt, aus diesem Gemüse, das Rommelspargel hieß, einen Ausweg zu suchen]» (p. 549). Ma non ci riesce: tutti i tentativi di rievocare un momento positivo (d’«amore») falliscono.

Si tratta di un punto essenziale per l’intero TL: il tamburo, oggetto-feticcio e simbolo della ribellione alla società e alla storia, risulta insufficiente a riscattare quanto la guerra ha provocato, a liberare se stessi dal cemento armato e dai bunker, che, come previsto, resteranno per sempre. L’arte è venuta meno al suo compito: dopo la fine delle ostilità, tutti gli artisti hanno tentato di rimuovere l’evento traumatico, rievocandolo, semmai, per farne un mezzo di guadagno. Ciò è manifesto nella parte finale dell’episodio, in cui Agneta scompare e Lankes usa i suoi ricordi per realizzare quadri con suore in forma di vele, magari intitolati «L’invasione» o «Mistico, barbarico, annoiato», che vengono poi venduti a musei e a industriali (cfr. pp. 551-2). E Oskar si adegua, «perché non solo la sua [di Lankes] arte reclamava il pane, anche la mia lo reclamava: bisognava per mezzo del tamburo di latta tramutare nello schietto e sonante oro del dopoguerra le esperienze che il treenne tamburino Oskar prima e durante la guerra aveva vissuto» (p. 552; cfr. 557: «risultò che il mio tamburo di latta era una miniera d’oro»). È quindi sancito il ritorno alla tranquillità borghese del Biedermeier, cosicché anche la sgm pare adatta ad una rappresentazione dilettevole[10].

Anche nella seconda parte dell’episodio dei bunker domina il grottesco, ma è di nuovo evidente il fondo tragico e traumatico che esso nasconde. Che poi questo ritorno ai bunker sia una sorta di premessa della fine è dimostrato dalla rapida conclusione dell’intero romanzo dopo l’episodio analizzato. Oskar compie la sua parabola, che lo conduce alla resa dei conti, fino a quel momento evitata da lui, e dal popolo tedesco. Aumentano i riferimenti alla «Cuoca Nera», figura della colpa, e insieme della morte, che diventa sempre più ossessiva (cfr. pp. 582 ss.), al punto che, nella conclusione del TL, sembra reificarsi: «C’è la Cuoca Nera qui – Sì, sì, sì! [Ist die Schwarze Köchin da? Ja – Ja – Ja]» (p. 591)[11]. Dopo la lunga rimozione, ma anche dopo un agire caotico ed ex lege che si contrappone alla tranquillità della falsa coscienza di chi crede che la sgm sia passata senza lasciare tracce, la fine della vicenda riporta a galla l’ossessione del protagonista, sopravvissuto sì, ma nel rimorso.

Il romanzo di Grass riesce dunque a far confluire gli sparsi elementi del racconto in un unico punto: la metafisica del realismo svela che il grottesco, riguardo alla sgm vissuta dai tedeschi in Europa, non è affatto esagerazione e deformazione, ma è l’epifania della colpevolezza tragica. Qualsiasi dichiarazione diretta, ovvero qualsiasi romanzo che rappresentasse questa stessa condizione in modo “documentaristico”, dovrebbe scontare un tasso di retoricità molto alto. Invece, la riattualizzazione della forma narrativa della menippea, unita però al grottesco e all’assurdo novecenteschi, porta ad una visione obliqua, e proprio per questo demistificante e priva di autogiustificazioni. Il protagonista di TL, anche quando ricorre alla nostra benevolenza, non giustifica il suo comportamento, che, come quello di tutti i rappresentanti della società tedesca con cui si trova in contatto, appare colpevole. La storia della Germania che ha attraversato il nazismo è dunque interpretata, realisticamente, attraverso l’eccesso contenutistico (la sgm grottesco-assurda) e formale (la menippea e il picaresco inverati dall’eccezionalità del con-tenuto).

 

3. Il TL svolge una funzione di gigantesco memento per chi vuole dimenticare, e questo tratto sarà sottolineato e addirittura diventerà predominante nel successivo Hundejahre (1963; trad. it. Anni di cani, 1966). Ma prima di parlare di questo romanzo qualcosa va detto su una novella (o racconto lungo) che ne doveva far parte, Katz und Maus (1961; trad. it. Gatto e topo, 1964). Protagonista è il giovane Mahlke, personaggio che sembra esorbitare da qualsiasi classificazione, tanto che è possibile considerarlo un clown o un creatore di mode. Come Oskar però è anch’egli segnato da una deformità (un gigantesco pomo d’Adamo), ed è tendenzialmente ex lege, persino quando si fa coinvolgere nell’atti-vità della gioventù nazista, quasi inconsapevolmente: «Tra l’altro mi sono presentato volontario. Sono il primo a trovarmi baggiano. Lo sapete che non ci credo un fico. Giocare a far la guerra, e poi questa smania di militarismo» (p. 139).  La sua è la storia priva di senso di chi è stato coinvolto nella lotta e ha compiuto azioni eroiche e insieme assurde; la sua scomparsa, mentre cerca, per l’ennesima volta, di recuperare relitti da una nave affondata, si può leggere come il rifiuto della guerra che si stava realmente combattendo. È ipotizzabile l’influsso di Le grand Meaulnes, romanzo biografico di un giovane eccezionale, modello in parte parodiato, in parte accettato da Grass. In ogni caso, questo testo pare proporre altri aspetti della storia tedesca durante il nazismo, connessi non al rapporto colpa/pena, bensì a quello potere tirannico/obbedienza (o ribellione).

In Anni di cani i protagonisti sono un polacco di origine ebraica, Eddy Amsel, ed uno di origine tedesca, Walter Matern, che continuamente si trasformano in altri e diversissimi personaggi (cfr. nota 9), e che per certi aspetti risultano complementari: grandi amici durante l’infanzia, poi avversari a causa del nazismo; l’uno grasso, ragionatore e pittore, l’altro slanciato, vitalista e attore. La storia di Matern è, di nuovo ed esplicitamente, quella di una rimozione, di una lunga non-volontà, conscia o inconscia, di riesaminare il passato. Ma alla fine, la necessità di fare chiarezza s’impone.

Dopo il racconto dell’infanzia dei due personaggi principali (Libro i: Primi turni [Frühschichten]), Grass narra (Libro ii: Lettere d’amore [Liebes- briefe], specie la parte finale, pp. 342 ss.) il periodo della sgm, sempre puntando al grottesco, che giunge ad un livello sommo quando viene presentata la caduta del nazismo attraverso i deliranti messaggi (non troppo lontani dal vero) di un Hitler interessato solo al ritrovamento del suo cane Prinz.

La parte che ci interessa (pp. 342-54) comincia col resoconto della vita di un soldato al fronte, in parte sotto forma di diario frantumato:

 

A partire dall’istante in cui l’urlo della baracca gli si è impiantato come una palla nell’orecchio, nel diario soltanto frasi semplici: il mortaio scivola all’in-dietro dentro la baracca. La guerra è più noiosa della scuola. Tutti aspettano l’arma miracolosa. Dopo la guerra andrò spesso al cinema. Ieri ho visto il mio primo morto. Ho riempito la gamella di marmellata.

 

Poi però la scena si sposta nel bunker del Führer a Berlino, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno (20 aprile 1945), momento in cui il cane Prinz decide di fuggire. Ogni sforzo bellico successivo sembra vòlto unicamente alla cattura del cane: Hitler comanda le operazioni e i suoi ordini sono in codice heideggeriano, ma con un surplus di grottesco dovuto al referente, ad esempio: «Da che cosa è determinato l’originario essere-rivelato del maschio riproduttore Prinz?» (p. 346). La caccia coincide con l’effettivo crollo del Reich, e si conclude con una scena apocalittica (p. 351):

 

Dopodiché, nella zona governativa della capitale del Reich le emissioni radio s’interrompono. La totalità territoriale, la nientificazione, inclini all’angoscia e da ricomporre pezzo per pezzo. La grandezza. La totalità. L’essere di Berlino in quanto prodotto. La finitizzazione. La fine. / Ma dopo tutto questo, sulla struttura finale il cielo non si oscurò [il riferimento conclusivo riguarda il buio che avvolge la terra alla morte di Cristo?].

 

Dopo questa massima esplicitazione del carattere tragico che si nasconde dietro il grottesco esibito da Grass, viene ancora descritta la fuga del cane Prinz, che attraversa la Germania distrutta e ormai alla resa, mentre già comincia l’opera di censura del passato: «Tutti vogliono dimenticare le montagne di ossa e le fosse comuni, i reggibandiera e i registri del Partito i debiti e la colpa» (p. 354).

Comincia poi la parte dedicata alla cronaca della storia postbellica (Libro iii: Le materniadi [Materniaden], dove si raggiungono punte di sarcasmo feroce). Matern viaggia con Prinz (ora Pluto, cane infernale) nella Germania postbellica, che pare una replica dell’Averno («non c’è averno a cui non debba far la guardia; non c’è fiume dei morti senza che un cane stia lì a slappare su l’acqua; Lete, Lete, come si fa a liberarsi dai ricordi? Niente inferni senza cani infernali», p. 362). E già gli ex-nazisti cercano di far dimenticare le loro opere (cfr. ad esempio p. 379); e già si cerca un capro espiatorio negli ex lege come Matern, il quale peraltro svolge a sua volta il ruolo di vendicatore. Si veda in particolare la 100ma Materniade, nella quale si riporta un dibattito radiofonico, con Matern nella veste di ospite-accusato («Collaborazionista! Nazista potenziale!», si dice di lui a p. 464), e che è strutturata come una tragedia greca[12]. In questa Materniade vengono portate alla luce le colpe di Matern, che però coincidono con quelle dei suoi giudici (cfr. pp. 502-4, in cui si parla in modo esplicito delle colpe contro gli ebrei). L’accusa al capro espiatorio prefigura, in modo rovesciato, il giusto processo a coloro che, sotto la spinta del nazismo, hanno liberato i loro istinti più violenti: anche questa parte è rivolta contro i molti che già «hanno creduto che quel che è passato è passato», perché si deve «rendere presente il passato» (p. 478, cfr. 519; e si confronti la posizione espressa nel TL)[13].

Ma è soprattutto importante la parte conclusiva del romanzo, la discesa agl’Inferi (raffigurati come una miniera-industria-tunnel degli orrori organizzata da Amsel, qui chiamato Brauxel) da parte dei due protagonisti. In quest’ultima Materniade, quella «al livello più basso e più profondo» (cfr. pp. 533-61), viene proposta un’allegoria del passato e del presente della Germania (cfr. pp. 553-4). Di fronte ad essa la presa di coscienza di Matern diviene definitiva: dopo la continua fuga dalla storia, ora egli vuole tornare dagl’Inferi alla vita, insieme con Amsel, e ciò viene posto in evidenza nella scena finale di purificazione (p. 561):

 

E questo e quello – chi vorrà ancora chiamarli Brauxel e Matern? – io e lui, noi camminiamo con la nostra lampada spenta verso lo spogliatoio, dove il custode ci toglie i caschi di sicurezza e la lampada a carburo. Introduce me e lui nello spogliatoio, che ha custodito gli abiti di Brauxel e di Matern. Usciamo dagli stracci del sottoterra. Per me e per lui sono state riempite le vasche. Dall’altra parte sento Eddi che sguazza. Adesso entro anch’io nella vasca. L’acqua ci lava. Eddi fischietta qualcosa di indeterminato. Io tento di fischiettare qualcosa di analogo. Ma è difficile. Siamo nudi tutti e due. Ci facciamo il bagno, ciascuno per conto suo.

 

La storia del nazismo ha portato ad un grottesco infernale, cui doveva seguire una purificazione, ma ancora, come recitano le ultime parole del libro, «ciascuno per conto suo», cioè con i tedeschi giustamente separati dagli ebrei, i colpevoli dalle vittime.

Anni di cani costituisce quindi il completamento del TL. La Trilogia di Danzica è in realtà una dittologia (TL e lo stesso Anni di cani, con l’intermezzo di Gatto e topo): si può parlare di un libro unico in due parti, che comprende la storia e il giudizio sul periodo dagli anni Trenta agli anni Cinquanta. Il tamburo demistificatore non basta più, occorre la rappresentazione allegorica dell’inferno che la Germania ha attraversato. In Anni di cani, peraltro, il tono risulta principalmente sarcastico e moralistico: una delle parole-chiave è Mief, il tanfo piccolo borghese. Scrivere così esplicitamente era forse indispensabile per un autore che si avviava a privilegiare non più la letteratura (in cui pure aveva nutrito «una fiducia enorme», come dichiarò in un’intervista all’“Europeo” del 17 febbraio 1963), ma la politica e l’ideologia.

 

4. Il TL nasce negli anni dell’oblio volontario, quando in Germania sorgono vari movimenti revanscisti, o quantomeno ispirati all’(auto)-indulgenza per i crimini nazisti[14]: nonostante la visione dei filmati sui lager, resta in Germania il mito della guerra, alimentato spesso da ex-militanti delle SS. Alla fine degli anni Cinquanta escono parecchi romanzi più o meno scopertamente apologetici, come Der Arzt von Stalingrad (1958; trad. it. Il medico di Stalingrado) di Heinz G. Konsalik, che difende il comportamento dei prigionieri tedeschi nei campi di prigionia russi, e diventa subito un bestseller. Certo, quel mito era stato intaccato dall’esito della sgm; rimanevano però altri miti minori, come quello della rettitudine dei soldati, a fronte della malvagità dei capi: escono film come Il generale del diavolo (1954) o libri come i Landserhefte (Diari del fante), dove Hitler non è mai nominato. In questo contesto coscienze critiche molto diverse, come quelle radunate nel Gruppo ’47, si sentono impegnate a discutere a fondo le colpe e la condizione postbellica della Germania[15].

La sgm è rappresentata nel TL come la colpa: Grass contrappone la sua volontà di reinterpretarla alla volontà comune di dimenticare. Ma anche nel suo successivo percorso letterario si nota un frequente ritorno al tema della guerra e del dopoguerra; una sintesi e motivazione di questo atteggiamento si trova nel discorso Schreiben nach Auschwitz (Scrivere dopo A.), tenuto all’università di Francoforte nel 1990. Grass dichiara che nella sua formazione di scrittore è stata fondamentale la riflessione di Adorno sui lager: è vero che egli decise di continuare, ma la sua opera è stata sempre segnata dal fatto di «scrivere dopo Auschwitz». In fondo, il troppo dire dei suoi primi romanzi, così riempiti di discorsi propagginati da discorsi, altro non è che un voler dire, nevrotico o psicotico, per giungere a confessare la colpa. È quindi possibile parlare di una affabulazione di copertura.

Nel TL (e in tutta la trilogia), la sgm costituisce l’evento traumatico, sempre esorcizzato e sempre ritornante. I bunker di cemento armato sono la concreta metafora della perennità della guerra. Nell’episodio che li riguarda ha grande spazio il dialogo sull’arte e sulla sua funzione: il fondamento tragico delle opere d’arte di Lankes (cioè i dipinti fatti sui bunker) viene cassato dopo la fine della sgm, senza che sia stata fatta giustizia. Ma i bunker rimangono, non è possibile cancellare la loro esistenza.

Il grottesco può qui essere considerato un’astuzia della psiche per riuscire a raccontare il tragico della sgm: dietro il grottesco sta sempre la Cuoca Nera. Questo senso di colpa e di castigo inevitabile è la condizione sine qua non di chi non si nasconde ciò che è avvenuto. Il grottesco del TL comprende dunque una componente tragica, anzi, in qualche misura è il tragico (e si veda del resto una dichiarazione dello stesso Grass: «L’Humour est pour moi un autre nom du désespoir»)[16]: in questo, appartiene allo stesso mondo dell’assurdo di Beckett. La forma carnevalesco-menippea è ripresa dalla tradizione, ma è rimotivata in profondità, perché serve a rappresentare il male del nazismo e della guerra, della quale si colgono insieme il lato sadico, quello stupido, quello terribile, indistricabili. Non è narrata la lotta epica bensì la piccola storia, non meno generatrice di angoscia per i colpevoli.

Siamo, con Grass, in apparenza lontanissimi dal DF e dalla sua apocalisse, perché nel TL si registra un continuo sberleffo al sommo artista, all’opera ben costruita, e insomma alla grandiosità, anche a quella della guerra come Fine totale. Il TL è soprattutto la continuazione, dopo la sgm, di Berlin Alexanderplatz, ossia del romanzo come accumulo, in cui la volontà di narrare diventa potenzialità etico-politica[17]. Il DF vedeva nella sgm la fine della Kultur romantica, della grande arte, legata a quella della Germania. Il TL sintetizza menippea, picaresco e teatro dell’assurdo in un unico grottesco, che giunge a coincidere con il tragico: la sgm è stata una grottesca festa di carnevale, in un bunker.

 

Note

 



[1]. Fra le voci più importanti della bibliografia, cfr. Arker (1989), puntuale commento a tutto il TL, e Fischer (1992); in italiano, Schiavoni (1980). Cfr. poi Schwan (1990) sul rapporto tra il picaresco e la guerra, specie pp. 18 ss. (e 130-1 per la bibliografia pregressa). Affronta il tema del grottesco nel TL McElroy (1989), specie pp. 94-113, con particolare attenzione per il narratore inattendibile Oskar. Si vedano anche i saggi sulla fortuna di Grass raccolti in Hermes, Neuhaus (1990).

 

[2]. Il brano è modellato su di un inno irredentista, assai rielaborato: «Perduta, non ancora perduta, già perduta, perduta la Polonia, tutto perduto, la Polonia non è ancora perduta [nell’originale, l’anafora è ancora più insistita: Verloren, noch nicht verloren, schon wieder verloren, an wen verloren, bald verloren, bereits verloren, Polen verloren, alles verloren, noch ist Polen nicht verloren]» (p. 101).

 

[3]. Gli aspetti demistificatòri da citare potrebbero comunque essere molti altri, concentrati in specie sulla retorica della dittatura; si veda ad esempio: «per Oskar i resoconti della Wehrmacht e i comunicati straordinari erano una specie di corso di geografia» (p. 315). Per inciso, l’equivalente cinematografico del TL si potrebbe trovare nelle parti dedicate al regime fascista nell’Amarcord di Fellini.

[4]. Cfr. Schiavoni (1980), pp. 47 ss.

[5]. Quanto alla psicologia di Oskar, molti altri sono gli elementi analizzati dalla critica, ad esempio lo scambio continuo nell’uso della prima e della terza persona, scambio che, in forme diverse, parrebbe una costante per tutti i personaggi maggiori di Grass (si pensi ad esempio alla duplicità dei protagonisti in Anni di cani, su cui torneremo). In Oskar, anche questo sembra un tratto rivelatore di una scissione psicologica. Quanto ai numerosi caratteri da dissacratore (cfr. ad esempio pp. 444-6), va notato che fra di essi si può annoverare la propensione per lo “schifoso” e per gli aspetti più laidi della realtà (cfr. pp. 143-5), anch’essa certo di origine patologica.

 

[6]. Quanto alla funzione ordinatrice della Storia, si confronti l’ironico finale di una lunga descrizione di eventi contemporanei: «Così non si poteva evitare che il filo degli avvenimenti, ancora vivo sul davanti, arruffato e pieno di nodi, dietro fosse già lavorato nella maglia della Storia» (p. 385). Come ha dichiarato in varie interviste, Grass si muove soprattutto contro lo storicismo hegeliano.

 

 

[7]. Osserviamo per inciso che il teatro è, come per l’antimodello Wilhelm Meister, lo spazio in cui Oskar può presentarsi senza remore: in altri termini è nel teatralizzarsi, cioè nel porsi come attore che recita una parte, che egli può parlare di sé. Su altro piano, vanno almeno ricordate le numerose esperienze teatrali di Grass in quegli anni, ricollegabili al teatro dell’assurdo.

[8]. Che forse contiene anche un singolare omaggio ad uno dei maestri di Grass, Paul Celan, là dove si dice che «la Morte ancor da paracadutista / veste [trägt auch der Tod noch Fallschirmseide]», pp. 337-8: potrebbe infatti trattarsi di una trasformazione della morte come «Meister aus Deutschland» di Todesfuge.

[9].  Grass non si preoccupa del cambiamento dei suoi protagonisti, che si modificano così come ogni uomo reale: sono spesso citate in proposito le teorie di Ernst Mach, note allo scrittore.

[10]. A tutto questo, biograficamente, Grass si opponeva assieme al Gruppo ’47, nella consapevolezza che l’arte postbellica era ormai in funzione del mercato (cfr. TL, pp. 460-1). Sull’arte nell’opera di Grass, cfr. Stallbaum (1989), specie pp. 96-112. Sull’Oskar arricchito, «un gobbo adulto, con un vestito ricercato e un po’ troppo pesante, munito di orologio da polso, carta d’identità, un fascio di biglietti di banca nel portafoglio», si vedano anche le considerazioni di Cusatelli (1973), p. 482.

[11]. In tutto il finale gli elementi mortuari sono molto frequenti: oltre al ritornello della Cuoca Nera, si contano vari sogni e visioni di Oskar, che oltretutto lavora come marmista-incisore di lapidi; inoltre varie parti di cadaveri vengono addirittura feticizzate. La violenza repressa trova modo di esplodere anche in forma di pulsione di morte.

[12]. L’intero Libro iii sembra debitore delle Eumenidi di Eschilo, oltre che della Commedia dantesca. Aggiungiamo qui che le Materniadi possono essere considerate uno psicodramma, in cui viene messo a nudo lo stato di distruzione delle coscienze tedesche: si pensi alla professione di fede negativa da parte di Matern: «Credo nel Nulla» (p. 480, cui peraltro segue una parodia di Heidegger; e si ripensi al «credere nel cemento» di TL).

[13]. Si parla poi, fra l’altro, della ricostruzione di Dresda compiuta dai sovietici (p. 513), e degli spaventapasseri-spettri, che si trovano nelle zone delle battaglie, sebbene gli abitanti facciano di tutto per non guardarli (cfr. p. 519).

[14].  Cfr. Mosse (1990), pp. 223 ss.

[15]. Non è qui possibile delineare i caratteri della Trümmerliteratur (Letteratura delle rovine o delle macerie), anche se, almeno nel caso di Böll (di cui andrebbe esaminato, più che il pur importante racconto Il treno era in orario [Der Zug war pünktlich, 1949], il romanzo in più parti Dov’eri Adamo? [Wo warst du, Adam?, 1951], che stigmatizza la totale inutilità della guerra), numerosi sarebbero gli spunti interessanti per un confronto con Grass, ricavabili anche da un intervento dal titolo Bekenntnis zur Trümmerliteratur (Adesione alla letteratura delle macerie), pubblicato nel 1952 dallo stesso Böll; va detto però che l’interesse per la rappresentazione della sgm è dovuto, in quest’ultimo autore, prima alla possibilità di un’introspezione psicologica e poi alle derivate sociali, come dimostra il suo romanzo Der Engel schweig (L’angelo tacque), edito solo di recente (1992; trad. it. 1996) ma scritto tra il 1949 e il 1951, in cui il ricordo della guerra sembra una cappa invisibile e però pressante.

[16]. Citato in Fischer (1992), p. 213.

[17]. Andrebbero qui esaminate le proposte letterarie e politiche del Gruppo ’47, raccontate nell’Incontro di Telgte (Das Treffen in Telgte, 1979), che propone un parallelo tra la Germania del 1647 (durante la Guerra dei trent’anni) e quella del 1947: un’opera in cui peraltro Grass non evita il rischio già notato da Enzensberger, ossia di essere minacciato da una parte dall’oscurità e dall’altra dal manierismo (cfr. Schiavoni, 1980, p. 47).