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1 maggio 2017

Di Alberto in: Proposte

Un contributo ariostesco


Qui di seguito un contributo ariostesco di prossima pubblicazione sulla rivista “Pagine della Dante” (da una versione più ampia edita in Ariosto: i metodi e i mondi possibili, Venezia, Marsilio, 2016).

IL “FURIOSO” E LA SUA POETICA*

Friedrich Schiller, con il saggio Sulla poetica ingenua e sentimentale (1795-96), capitale per l’interpretazione della poesia e della letteratura moderne, fu tra i primi a collocare Ariosto fra gli scrittori sentimentali. Fece così un passo decisivo per riportare anche il Furioso in un più giusto ambito critico-interpretativo. Nella celebre ottava della “gran bontà de’ cavallieri antiqui” (Fur. I 22), il grande lettore tedesco avvertì il distacco che il poeta certo percepiva tra i costumi del suo tempo e quelli degli antichi: cittadino di un “mondo più tardo”, Ariosto non poteva narrare ingenuamente la sua materia come aveva fatto Omero.

Un altro Friedrich (Hegel) fece un ulteriore passo avanti, paragonando l’opera di Ariosto a quella di Cervantes e concentrando l’attenzione sull’atteggiamento ironico e il limite dissacrante mostrati nel Furioso (e non nel Don Chisciotte) verso il mondo dei valori cavallereschi. Un atteggiamento evidente, che pure molti interpreti, soprattutto del Cinquecento, non colsero o non vollero vedere.

Ai nostri giorni, dopo le molteplici letture del capolavoro ariostesco volte a segnalarne la forte consapevolezza – letteraria e metaletteraria – sembra soprattutto opportuno riconsiderare le coordinate entro le quali esso nacque e si sviluppò, in primo luogo iuxta propria principia, ossia attenendosi alle sue proprie regole interne.

Parlare di “poetica” in rapporto ad Ariosto può apparire inutile o fuori tempo, se consideriamo che l’età “delle regole e dei generi” si fa generalmente iniziare dal periodo immediatamente successivo alla morte del poeta. Nonostante ciò, tuttavia, è possibile individuare elementi di una poetica implicita nel Furioso anche solo prendendo in esame passi significativi ed espliciti, come: “Ma perché varie fila a varie tele / uopo mi son, che tutte ordire intendo, / lascio Rinaldo e l’agitata prua, / e torno a dir di Bradamante sua” (II 30, 5-8), oppure come: “Signor, far mi convien come fa il buono / sonator sopra il suo instrumento arguto, / che spesso muta corda, e varia suono, / ricercando ora il grave, ora l’acuto”(VIII 29, 1-4).

Se Ariosto, in passi come questi, sembra apertamente spiegare i propri metodi, è importante sottolineare che gran parte di essi rientrano nell’alveo della “precettistica” oraziana, ben forte, ancorché non codificata, sia nel momento della formazione ariostesca, sia della stesura del poema.

La crescente fortuna dell’Ars poetica nel primo Cinquecento contribuì a escludere sia l’eccessiva libertà, sia l’anticlassicismo propri di Matteo Maria Boiardo. L’entrelacement infinito dell’Innamorato, nel Furioso, fu così trasformato in una equilibrata varietas e piacevolezza governata, cioè in una “mediocre forma” (“sempre dannai le estreme”: cfr. Sat. V 170-1), dotata di “perfezione e chiusura” derivanti da una voluta e abile miscela variabile.

Si intende qui, con “precettistica oraziana” e secondo la distinzione proposta da Luciano Anceschi, l’insieme dei suggerimenti di modalità compositive, che sin dal Medioevo furono opportunamente proposti tramite l’Ars poetica a scrittori di qualunque ambito e “genere”. Suggerimenti contrapposti a quelli della ferrea regolamentazione di ascendenza aristotelica, che sarebbero apparsi imprescindibili nel secondo Cinquecento.

Da notare ancor più che, sin dal 1482, anche Cristoforo Landino – uno dei più autorevoli commentatori dell’epistola oraziana in ambito umanistico – aveva messo in rilievo come il fondamento di ogni “buona poesia” fosse proprio reperibile tra i versi dell’Ars.

Con enfasi, Landino sottolineava quanto, per ogni poeta, fosse importante unire l’utile e il piacevole; questo precetto era sentito come molto rilevante in ambito umanistico. Sappiamo anche che l’intellettuale fiorentino sosteneva la funzione “conoscitiva” della poesia, sforzandosi di unire componenti platoniche a quelle oraziano-aristoteliche. Tracce evidenti di queste posizioni sono ben riconoscibili anche nella cultura ferrarese, e le ritroviamo per esempio nell’Equitatio (1506-7) di Celio Calcagnini, dove si legge, tra l’altro, che Ariosto è “il solo (…) a mescolare utile e piacevole”. Il commento landiniano, per quanto più netto e meno erudito di quelli degli antichi, divenne ben presto altrettanto autorevole e così resterà almeno fino al primo Cinquecento, quando i commentatori di Orazio davano anche per scontato che i poeti sono autorizzati anche a mentire, se serve a far “quadrare” l’opera.

Le riscritture scolastiche oraziane, diffuse nella poetica classicistica media del periodo, in sintesi affermavano tre principi: il furor poetico si deve controllare con la ratio; la varietà va perseguita, per ottenere la piacevolezza; l’imitazione o l’emulazione sono giustificate, sino al “furto” e al riuso dei modelli. Ariosto si appropria di quest’idea di letteratura, citandone l’autore, Marco Gerolamo Vida, sia nel Furioso che nelle Satire. Un’altra concezione sposata in pieno da Ariosto è che, essendo la poesia un dono divino, deve essere considerata in primo luogo come creatrice di civiltà, e gli uomini si devono guardare dal maltrattare i poeti. La poesia come fonte di civiltà, la contrapposizione tra poeti “buoni” e “malvagi” e altri temi hanno una matrice oraziana, apertamente ripresa nella Satira VI (vv. 70-87):

ma non fu tal [ossia poeta “malvagio”] già Febo, né Anfïone,

né gli altri che trovaro i primi versi,

che col buon stile, e più con l’opre buone,

persuasero agli uomini a doversi

ridurre insieme, e abandonar le giande

che per le selve li traean dispersi;

e fér che i più robusti, la cui grande

forza era usata alli minori tòrre

or mogli, or gregge et or miglior vivande,

si lasciaro alle leggi sottoporre,

e cominciar, versando aratri e glebe,

del sudor lor più giusti frutti a-ccòrre.

Indi i scrittor féro all’indotta plebe

creder ch’al suon de le soavi cetre

l’un Troia e l’altro edificasse Tebe;

e avesson fatto scendere le petre

dagli alti monti, et Orfeo tratto al canto

tigri e leon da le spelonche tetre.

 

Raramente questa importante traduzione-riscrittura di Orazio viene accostata alla poetica del Furioso, peraltro precedente di qualche anno. L’elemento assente nell’originale, ma sottolineato nel testo ariostesco, è quello dell’azione prodotta dai poeti  (non dalla poesia o Poesia in sé ma dagli uomini che la praticano). L’azione è prima “persuadere” (cfr. v. 73) ad accettare la convivenza civile e le leggi; poi “far credere” alla indotta plebe cose incredibili, come la costruzione di Troia e Tebe, facendo uso della sola forza del canto. Dunque, rispetto all’originale, Ariosto aggiunge la falsità delle cose raccontate, certamente a fin di bene e con uno scopo elevato, ma pur sempre ingannevoli per gli “indotti”.

Questo aspetto è determinante anche nel poema, per esempio nel fondamentale discorso di San Giovanni, su cui torneremo più avanti. La “deontologia” ariostesca dell’attività poetica distingue qui due aspetti: la poesia in quanto tale è finzione e può accogliere qualunque tipo di invenzione; i poeti “buoni”, rari e poco rispettati, possono anche mentire, contraddicendo la verità storica, per salvaguardare valori da loro condivisi, e anche quelli della corte nella quale vivono. Nella Satira I, per esempio, Ariosto dice (di sé stesso, ma anche al giovane Andrea Marone): “Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta / con la lira in un cesso, e una arte impara, / se beneficii vuoi, che sia più accetta” (vv. 115-7). Portata alle sue più ovvie conseguenze questa deontologia invita i poeti “buoni” a lodare i signori anche quando non lo meritano. Ricorrendo all’ironia, i “buoni” potranno salvaguardare la propria indipendenza e, pur socialmente inseriti, non si allineeranno agli pseudovalori dei “malvagi”. Questa autorappresentazione naturalmente può significare anche una difesa preventiva di Ariosto, o una giustificazione davanti alla propria coscienza riguardo agli effettivi ruoli ricoperti presso gli Este. Resta però significativo che il poeta abbia voluto introdurre proprio nel punto culminante della trama un’ambiguità sulla veridicità della propria opera, specie per le parti pronunciate direttamente dal narratore-autore, dunque ipoteticamente al riparo da ogni dubbio. Il margine di manovra che Ariosto si ritaglia rispetto a una letteratura moralmente ineccepibile è dunque nell’ambiguità potenziale di affermazioni solo apparentemente semplici. Ciò non significa sposare interamente la causa dell’ambiguità, né lasciare spazio a liberi giudizi: il male, per lui, alla fine deve sempre essere punito.

Resta molto spazio per una vasta fenomenologia di incoerenze tutte umane e che, più o meno inconsce, interessano per le loro conseguenze sociali e interpersonali. La sensazione è che il poema esprima la volontà di interpretare moralmente e giustamente gli atteggiamenti umani, impossibile per il quantum di pazzia che alberga in ognuno, e quindi anche nel narratore, e per le convenzioni sociali che spingono o costringono anche i poeti “buoni” ad accettare o a scrivere falsità, ancorché motivate. Le fantasie “dilettevoli” lasciano nel lettore il desiderio che siano state vere almeno nel momento della recitazione, ma si prospettano come un’enciclopedia dei casi amorosi e bellici: ogni lotta per la conquista di un oggetto del desiderio, a cominciare da Angelica, comporta una serie infinita di altre lotte, evitabili solo accettando un’etica ironicamente minimalista e peculiare.

 

Quali sono le novità del poema? Fin dalla sua genesi, il Furioso si colloca all’intersezione tra la spinta epico-storica e quella romanzesca, con particolare riferimento alla versione che di questo genere fu offerta dall’Innamorato e situandosi in ambivalenza tra l’essere continuazione e opera autonoma rispetto all’incompiuto capolavoro boiardesco. Una novità molto interessante del Furioso è la creazione di un personaggio-narratore, che esibisce una duplice natura (auto)biografica e fittizia sin dal proemio. Al posto della figura del poeta boiardesco, “canterino” al centro di un pubblico eletto di signori, cavalieri e dame, ma privo di una sua fisionomia, ecco invece un cantore che, prendendo le mosse quanto meno da Dante e da Virgilio, propone non solo l’intera materia boiardesca di “armi e amori”, ma addirittura un argomento del tutto inusitato: la pazzia di Orlando, a causa dell’amore.

Il narratore-alter ego dialoga con un interlocutore privilegiato: Ippolito è la perfetta figura testuale, da un lato effettivo signore dell’autore e dall’altro esponente della famiglia cui si rivolge il versante encomiastico dell’opera, basato sul personaggio di Ruggiero. Il narratore-autore ha una personalità spiccata, e – oltre a suddividere la propositio in più parti, introduce una invocatio del tutto singolare, dove chiama in causa la donna amata, deprecandola, e dove l’io-narrante sottolinea la sua “quasi” vicinanza all’Orlando “furioso”. Proseguendo con un atteggiamento che potremmo definire di understatement, il narratore riprende con l’autodescrizione di sé come “umil servo” del “Signore” Ippolito, che dovrebbe concedere un poco di spazio ai “versi” del poema fra i suoi “alti pensieri”. Il poeta ha qui e soprattutto l’ardire di rivolgersi direttamente al signore, offrendosi attraverso la propria opera e lasciando trapelare che il potere del narratore, come quello dei poeti, è molto più ampio di quello che l’opinione comune potrebbe far credere. Questo approccio, profondamente ironico, sarà chiarito e meglio delineato nel passo più beffardo e trasgressivo del poema, il discorso di San Giovanni sulla Luna. Abbiamo dunque detto dell’io-narrante, che si profila tra le righe del narrato anziché confondersi nella trama come accadeva nell’Innamorato. Il punto di distanza più ampio dalla narrazione boiardesca è però il tema della pazzia di Orlando. L’amore come forma di pazzia non era cosa nuova, lo troviamo in opere greco-latine e poi petrarchesche e petrarchistiche. Boiardo collocava l’amore al centro delle virtù che esaltano le potenzialità umane e in particolare degli eroi: “Però ch’Amor è quel che dà la gloria / e che fa l’homo degno et honorato” (II xviii 3, 1-2). Secondo questa prospettiva Orlando, proprio perché “inamorato”, può diventare cavaliere ancora più perfetto e autore di imprese mirabolanti. In questo mondo “antiquo”, cronologicamente lontano e ormai mitico (ma ancora ricreabile attraverso il canto delle “belle istorie”), i paladini compiono grandi imprese sulle quali si può scherzare comicamente, ma non si prevede né il distacco ironico né il confronto con la realtà storica; la voce narrante evita riferimenti concreti, e sia che invochi la donna amata o che commenti anche moralisticamente gli eventi, esprime una mera funzione del testo, mai un personaggio a tutto tondo.

Il narratore del Furioso, viceversa, interviene ampiamente per dimostrare la sua sottile ma determinante regia, e per confrontare gli eventi raccontati con la realtà storica ferrarese e italiana; la serie di osservazioni morali che esprime in esordio superano il moralismo stereotipato per aprirsi alle esigenze di un’etica tendenzialmente flessibile, così come si andava delineando nel pensiero non ancora post-cristiano, ma che stava già affrontando una forte crisi a causa delle sempre più forti spinte riformiste o laiche (Machiavelli, Guicciardini, oppure, a suo modo, Castiglione), come hanno ben evidenziato studi specifici di Amedeo Quondam o Hans Honnacker in merito al dibattito sull’etica nel primo Cinquecento, anche in rapporto alla funzione morale della letteratura.

La poetica del capolavoro ariostesco riporta dunque la ri-creazione di un mondo improntato dagli ideali cortesi entro un ambito che sarà poi sottoposto a un giudizio etico, ma nient’affatto convenzionale. La precettistica oraziana dell’utile dulci o docere delectando diventa un fondamento importante, per il Furioso, sebbene Ariosto abbia – in molte lettere – ribadito la vocazione di “spasso” della sua opera, dichiarata autentica continuazione di quella del Conte Matteo Maria.

Per capire come si può arrivare a impazzire per amore, e come perfino un eroico paladino e un “saggio letterato” possano perdere la ragione per questo motivo, serve però un approccio di discernimento etico, rimasto intrinseco all’impostazione del racconto. La pazzia di Orlando procede verso l’esito in contrappunto con la pazzia rasentata dall’autore, che ha già sperimentato un dolore simile a quello del paladino.

 

Chi mette il piè su l’amorosa pania,

cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;

che non è in somma amor, se non insania,

a giudizio de’ savi universale:

e se ben come Orlando ognun non smania,

suo furor mostra a qualch’altro segnale.

E quale è di pazzia segno più espresso

che, per altri voler, perder se stesso?

 

Varii gli effetti son, ma la pazzia

è tutt’una però, che li fa uscire.

Gli è come una gran selva, ove la via

conviene a forza, a chi vi va, fallire:

chi su, chi giù, chi qua, chi là travia.

Per concludere in somma, io vi vo’ dire:

a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena,

si convengono i ceppi e la catena.

 

Ben mi si potria dir: — Frate, tu vai

l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo.—

Io vi rispondo che comprendo assai,

or che di mente ho lucido intervallo;

et ho gran cura (e spero farlo ormai)

di riposarmi e d’uscir fuor di ballo:

ma tosto far, come vorrei, nol posso;

che ‘l male è penetrato infin all’osso (XXIV 1-3).

 

L’immagine dell’ott. 2, è noto, deriva dalla Satira II iii, 46-51 di Orazio, del resto impiegato anche in molti altri snodi fondamentali della narrazione: una satira non a caso dedicata alle forme di pazzia umana. Ma intanto, l’immagine della “selva” dove tutti si perdono, dopo un inutile vagare, rimanda, in una sorta di mise en abyme, all’intero poema, nel quale appunto le donne e i cavalieri altro non fanno che inseguire vanamente i loro oggetti del desiderio. Inoltre, l’elenco delle pazzie viene stilato non senza un umorismo, che non può non avere chi osa parlare di sé mentre si trova dentro il ‘ballo’ (cfr. ott. 3, 6) come tutti gli altri: un umorismo che si esplicita già nel finale dell’ottava 1, laddove, dopo una serie di consigli che ben poco risultato possono portare, si conclude che il giungere a “perder se stessi” per “altri voler” è la più evidente manifestazione di pazzia. Una conclusione, ancora una volta, all’insegna dell’understatement e quasi della banalità: ma si noti che anche qui, come spesso nel Furioso, versi in apparenza limpidi e facili ne riscrivono ironicamente altri, in questo caso quelli – tragici – di Perottino (“e veggio expresso / che per cercar altrui perdo me stesso”) negli Asolani (I xxxiii,51-2).

 

L’operazione del narratore-personaggio (e alter ego dell’autore) ariostesco è allora, in primo luogo, quella di configurare un mondo all’apparenza armonico e perfetto, poi incrinato dall’interno attraverso una forma di spiazzamento delle attese, che è pure un portato dell’ironia e dell’umorismo. Non si può parlare esattamente di “straniamento”: l’equipollenza tra le forme ariostesche e quelle più tipiche delle varie avanguardie novecentesche è solo parziale, perché il Furioso non vuole generare un effetto di sconvolgimento pre-barocco e nemmeno una sorta di labirinto delle illusioni o una Wunderkammer. La consapevolezza della mutabilità del reale, dell’inganno delle apparenze, dell’incostanza di tutte le cose e in particolare dell’animo umano non porta ancora a una crisi del sistema etico o epistemologico, come varie letture e interpretazioni postmoderne tenderebbero a proporre. Piuttosto, per questo narratore real-fittizio, si tratta di svelare le continue doppiezze del reale spiazzando intanto il lettore, che deve avere “l’anello della ragione” per trovare i presupposti del vivere saggio in quella Terra dove rimane costantemente la pazzia.

Esattamente questa è la “certezza” che si ricava dal viaggio sulla Luna. Cerchiamo allora di focalizzare le essenziali componenti del celebre episodio, nella prospettiva qui adottata. Innanzitutto, il cavaliere “vantone” (o “spaccone”) Astolfo, già convertito nel corso del Furioso a Homo fortunatus, capace di affrontare mirabolanti venture e di vincerle quasi senza rendersene conto (magari in groppa all’ippogrifo, ossia l’animale più ironicamente meraviglioso del poema), diventa l’uomo della provvidenza. Sorprendente anche la cavalcatura, non solo il cavaliere, quasi non ci crede neppure lo stesso narratore: “Non è finto il destrier, ma naturale, / ch’una giumenta generò d’un grifo: / simile al padre avea la piuma e l’ale, / li piedi anteriori, il capo e il grifo; / in tutte l’altre membra parea quale / era la madre, e chiamasi ippogrifo; / che nei monti Rifei vengon, ma rari, / molto di là dagli aghiacciati mari” (IV 18). Tutta l’ironia ariostesca trapela nella precisazione “ma rari”, per niente necessaria e perciò tale da costringere il lettore a percepire l’incredibilità dell’intera descrizione.

Astolfo, su questo destriero meraviglioso, giunge all’Eden e viene informato da San Giovanni Evangelista in persona che Orlando ha tradito il suo compito di cavaliere votato solo a Dio, e proprio Astolfo è stato designato per ridonargli la ragione. Una situazione piuttosto paradossale (il cavaliere comico-buffone salverà quello savio per eccellenza) preannuncia lo scenario offerto dal Furioso al lettore nel primo dei regni celesti, quello della volubilità, specchio della Terra e deposito delle cose perse quaggiù. È da questo mondo capovolto che si può capire qual è la natura dei comportamenti umani: il lettore troverà un coloratissimo catalogo, non certo un giudizio.

Qui il modello, si sa, non è Dante, ma l’Alberti dell’Intercenale Somnium: un esponente di quella tradizione lucianea che possiamo senz’altro considerare il côté più dissacrante della letteratura umanistica. La novità ariostesca non sta nell’aver riproposto una rassegna di simboli che corrispondono alle tante pazzie terrene, ma nella finalizzazione ultima, e “non necessaria”, dell’episodio. Ecco infatti che, nel suo discorso a favore dei “buoni poeti”, San Giovanni giunge a sostenere:

Omero Agamennón vittorioso,

e fe’ i Troian parer vili et inerti;

e che Penelopea fida al suo sposo

dai Prochi mille oltraggi avea sofferti.

E se tu vuoi che ‘l ver non ti sia ascoso,

tutta al contrario l’istoria converti:

che i Greci rotti, e che Troia vittrice,

e che Penelopea fu meretrice (XXXV 27).

 

“Tutta al contrario l’istoria converti”: il lettore non può non restare spiazzato dall’estensione generalizzante di quest’affermazione. Il tono è paradossale, e solo in questo modo si può accettare il discorso dell’Evangelista, che altrimenti porterebbe (manca un niente) all’eresia della falsità dei Vangeli stessi; tuttavia, attraverso questo paradosso e per interposta persona, il narratore-quasi-autore è riuscito a dire che la buona poesia fa la storia, ovvero che i buoni poeti sono più forti dei loro signori. E proprio a questo, al fondo, mira l’intero Furioso: la sua apparenza può essere quella di “far sovente / di false lode i principi satolli” (come brutalmente verrà esplicitato nella già citata Satira VI, 53-4), o quella di costituire uno “spasso” in prosecuzione di quello dell’Innamorato. Invece, tutto al contrario, il poema conduce all’esaltazione del narratore autoironico, o meglio della sua attività poetica, che ha lo scopo di costruire un modello di racconto perfettamente autoconsistente, in cui riferimenti letterari e allusioni alla realtà storica si fondono nell’armonia dell’opera “classicizzata” (non classica tout court, dato che la dimensione ‘moderna’ del Furioso è ben esibita). Il poema ha anche il fine pratico di proporre un’interpretazione della vita umana distante dalle certezze di una religione seriamente discussa (ma non ancora abbandonata), e però bisognosa di una moralità, quanto meno ironica e indulgente.

Un’ulteriore conferma di quanto detto si trova nella conclusione del viaggio testuale, che si completa in un porto. Qui il narratore-alter ego vive un momento fittiziamente realistico: la schiera di donne, cavalieri e poeti che lo accolgono è precisa e aggiornata in tutte e tre le redazioni, ma non includerà mai nessuno dei più importanti signori d’Este. L’arrivo in porto del narratore-autore, infatti, non può essere salutato da chi lo ha costretto ad essere prima di tutto poeta-cortigiano, e che disprezzerà l’opera dopo la sua uscita.

 

Abbiamo sin qui delineato lo scheletro del Furioso, opera nata nella corte e per la corte, e non appieno compresa né accettata dai signori cui era rivolta. Del resto, lo stesso motto finale (d’autore), “Pro bono malum”, accompagnato dalla famosa impresa delle api e dei serpenti, è esplicita sull’impossibilità di fare il bene ricevendo il bene nelle corti, luoghi di conflitti e lotte dove invece la norma è ricambiare il bene con il male.

Dell’ingratitudine umana, pure in ambito amoroso, Orlando fa una terribile prova (definisce Angelica “mancatrice di fede” e “ingrata”), testimoniando che l’intero agire dell’uomo pare sottoposto a queste due grandiose forze: il desiderio amoroso in tutte le sue espressioni, e l’opposizione a questo desiderio, che si può concretizzare in rifiuti, inganni ecc. Tale è il destino di quasi tutti i personaggi, soggetti a una continua spinta che non trova quasi mai realizzazione. Secondo l’interpretazione di Sergio Zatti (Il “Furioso” fra epos e romanzo), la logica del desiderio mimetico o triangolare per cui si desidera ciò che è desiderato da altri, individuata da René Girard solo a partire dal Don Chisciotte, si attua già nel Furioso attraverso il sistematico intreccio (entrelacement) delle varie ricerche condotte dai personaggi, secondo schemi tipici del romanzo bretone che qui assurgono a sistema costante. Anche in questa interpretazione della struttura del poema, però, rimane subordinato il ruolo preminente del narratore, che, come si è detto, non rinuncia a valutare i comportamenti, non sempre accettabili e anzi spesso punibili. Nel Furioso non mancano i malvagi completi: Polinesso, Gabrina, Martano – nome parlante, che equivale a ‘marrano’ – ma vengono puniti tutti, al termine della loro storia. Un capitolo a parte meriterebbe il rapporto tra il narratore-autore e le donne, giocato sempre sulla dialettica fra stereotipi della morale comune o letteraria e riscontri effettuali che però nel ’32 giungeranno all’esaltazione delle donne-artiste. La moralità del Furioso risulta, come si è detto, aperta alla multiforme fenomenologia dei comportamenti, ma non indiscriminatamente giustificatoria.

Anche la continua varietà delle azioni e del loro intrecciarsi, elemento di piacevolezza testuale, non va considerata – novecentescamente – una rappresentazione del caos, ma un mosaico o un contrappunto, nei quali tutti i dettagli anche minimi troveranno una collocazione adeguata. La peculiare rappresentazione del tempo e dello spazio nel Furioso sono stati oggetto, specie negli ultimi decenni del Novecento, di numerosi e interessanti studi o saggi, senza dimenticare le interpretazioni d’autore, da Calvino a Ronconi e Sanguineti. Ancora una volta, una lettura troppo aderente all’eversione avanguardistica (ma anche all’attrazione per il labirinto, di epoca postmoderna) rischia di diventare fuorviante, benché ovviamente legittima nell’ambito delle riletture che ogni classico non può non accogliere. Ma lo spazio del Furioso va definito collocandolo fra due polarità: quella della precisione “cartografica”, propria di un mondo pre-galileiano (ma successivo alle scoperte di Colombo), conosciuto soprattutto attraverso ricostruzioni e disegni (i mirabilia mundi su cui giustamente si inizia a lavorare). Un mondo concreto, e insieme mentale, appunto come una mappa. La seconda polarità è quella dell’eversione meravigliosa, che però, a ben guardare, si limita al viaggio ultraterreno di Astolfo, evidentemente diverso dagli altri del poema, irrealistici, ma non incredibili: il lettore deve accettarli, sospendendo la sua incredulità, e insieme cercando di comprenderne il senso o non-senso (il vagare inutile dei paladini).  Il confronto fra spazi descritti e spazi reali diventa esplicito nel canto XV, quando Ariosto – nella versione del ’32 – farà un’aggiunta sulle scoperte geografiche, che fa trapelare i dubbi ancora esistenti sulle nuove terre e la necessità per Ariosto di aggiornare la cosmografia interna al poema, anche per ragioni politiche, ossia per esaltare le conquiste di Carlo V.

Il Furioso non apre uno spazio labirintico quindi, ma semmai uno funzionale alle storie, in cui precisione cartografica e invenzione narrativa si fondono; qualcosa di analogo vale per il tempo, anch’esso, com’è stato detto (Praloran e Sangirardi), prospettico, inerente alla scrittura e alle sue esigenze, e non volutamente ambiguo o diffranto, come solo un lettore eccessivamente puntiglioso potrebbe credere. Ma quello cui parla Ariosto è un lettore che apprezza le storie e non pone in discussione il modo di raccontarle, come semmai sarà spinto a fare il lettore-tipo di Lawrence Sterne, con il suo Tristram Shandy.

 

Così, in forma di elementi che si organizzano in una corrispondenza sublime, indirettamente e ironicamente platonica, si presenta il Furioso: per fortuna possiamo tornare a parlarne in questi termini, solo lontanamente crociani, perché l’armonia o la classicizzazione, ideali evidenti in tutte le poetiche di primo Cinquecento. Non li guardiamo più come dati oggettivi ma anzitutto come risultati di una selezione che da parte di Ariosto non esclude la storia con i suoi problemi, e poi di una continua approssimazione al limite, cui si possono contrapporre ideali anti-classicisti che hanno portato a leggere la poetica ariostesca tendenzialmente “di sbieco”, o in modo indiretto.
Due sono anche gli aspetti fondamentali per la comprensione dell’artisticità del poema (senza alcuna preclusione di matrice desanctisiana). Il primo riguarda le costanti revisioni linguistico-stilistiche ariostesche, che non vanno lette in modo finalistico, ma come espressione di una tendenza costante all’equilibrio. Il secondo aspetto da rilevare è che nelle tre versioni i rapporti intertestuali sono all’insegna dell’omogeneizzazione e della sovrapposizione: elementi epici e romanzeschi si fondono costantemente, con momenti di prevalenza alternata, e le fonti esplicite vengono spesso contaminate con altre; Virgilio e Ovidio, Dante e Boccaccio, etc. I rapporti con i modelli registrano così una gamma amplissima, spaziando dall’imitazione elegante, all’emulazione (specie nei confronti di Boiardo), alla parodia bonaria o dissacrante, persino nei confronti di Dante e Petrarca. In sostanza, il cosiddetto “tono medio” del Furioso è il frutto di una continua variazione testuale e intertestuale, di accostamenti giudiziosi e di smorzamenti arguti (esemplari le ottave dedicate a Sacripante in I 38 sgg.): e sarà proprio una diversa gradazione di toni a contraddistinguere il testo del ’32 rispetto a quelli del ’16 e del ’21, non perché l’intrinseca intertestualità del Furioso risulti stravolta, ma perché vengono acquisite note sino a quel momento poco sfruttate, per esempio l’orroroso e il patetico nell’episodio di Ruggiero e Leone, quasi sicuramente l’ultimo a essere composto (canti XLIV-XLVI).

Gli elementi di continuità e di differenziazione fra le tre edizioni vanno dunque definiti secondo più angolature, prestando attenzione alle sfumature per non incorrere in una interpretazione rigida e fuorviante come quella di un generico pessimismo ariostesco nel ’32. Questa visione multiprospettica non esime dall’interpretazione del testo, specie per quanto riguarda i finali. Anche nella sezione conclusiva del Furioso appare un’alternanza-sovrapposizione di episodi epici e di altri romanzeschi, di rilevanza progressivamente crescente.

Nel Furioso troviamo dunque interpretate liberamente la tradizione letteraria nonché la morale stereotipata: è un testo collocabile nel suo presente, come suggestiva riscrittura se non travestimento di un passato cavalleresco che per molti, alla corte estense, rappresentava ancora uno sfondo culturale praticabile. Un testo che costruisce mondi illusori per riuscire a demistificare ideologie consolidate, a cominciare da quelle dell’amore e del potere. Una formidabile interpretazione coeva del poema è racchiusa nella Melissa attribuita a Dosso Dossi, ora alla Galleria Borghese e databile al 1516-18: la maga è rappresentata sul punto di distruggere gli strumenti della malvagia Alcina (lo spunto probabilmente viene da Fur. VIII 14) con una scelta intelligente – chissà se suggerita da Ariosto stesso? – per sottolineare la vittoria sugli inganni con cui terminano, in sostanza, tutti gli episodi del poema. Non si tratta, ancora una volta, di una banalizzazione con il bene che deve trionfare sul male, ma dell’umoristica tendenza a leggere la storia in rapporto alla letteratura, e viceversa; a tentare di comprendere i comportamenti umani attraverso quelli dei personaggi, in primis, il protagonista Orlando e il suo narratore-autore; a creare un mondo totalmente fittizio ma sin troppo simile a quello che chiamiamo reale, e che invece può essere a sua volta una costruzione di immagini esteriori, come una corte con un cardinale e il suo “umil servo”-cantore ironico.

Se allora dietro la moltiplicazione delle fonti, la variazione continua sui modelli, la componente ludica e a volte trasgressiva, tipiche di Ariosto, dobbiamo cogliere un rapporto con la realtà, esso appare non distaccato o in qualche misura patologico, bensì aperto e umoristicamente rassegnato all’inevitabilità dell’errore. Se la pazzia è la forma più tipica di ogni comportamento umano, ad essa ci si può opporre con un’etica ironica, secondo una gamma molto ampia di atteggiamenti, che vanno dalla finzione letteraria alla storia, parimenti costituita da falsità – ma non per questo mostruosa e da esorcizzare con l’invenzione.

Piuttosto, adottando la potenzialità del “falso d’autore”, Ariosto sembra realizzare la sua più autentica nota ironica nell’ambito di un ideale letterario che resta fondamentalmente oraziano, a livello letterario e morale. L’inquietudine che trapela dietro una facciata solo in apparenza armonica segnala così non tanto aspetti inconsci del represso o rimosso, bensì altri, più attinenti alla sfera della ragion pratica, ma non per questo meno interessanti.

Si può anche sostenere che l’attingere la perfezione non coincida, per l’autore del Furioso, con il raggiungere la verità. È chiaro infatti che, se la selva è metafora di una condizione che coinvolge tutti i “pazzi” cavalieri (ovvero tutti gli esseri umani), la Luna è il luogo ultraterreno nel quale si può non tanto stabilire verità assolute, bensì svelare le falsità di cui si intride ogni racconto: ma allora, si dovrebbe pensare, fra i racconti falsi può essere compreso anche quello dell’io-narrante, che avrebbe forse voluto/dovuto esprimersi come farà nelle Satire?

Non dobbiamo pensare a un’autenticità biografica indiscutibile: sappiamo che spesso confessarsi è mentire, e di certo per l’autore Ariosto, che non ama esprimersi in prosa incondita, anche le Satire possono rappresentare un filtro, un ennesimo auto-rappresentarsi. Ecco la rottura manifestata dalla prima Satira, che è prima di tutto segnalazione dell’insuccesso (o “falso voluto”) riguardo all’aspetto encomiastico del Furioso: “Ruggier, se alla progenie tua mi fai / sì poco grato, e nulla mi prevaglio / che li alti gesti e tuo valor cantai, / che debbio far…” (vv. 139-42).

“Che debbio far” è la stessa espressione messa in bocca a Sacripante (comico rappresentante degli amanti destinati alla delusione), quando pensa di non aver più speranze con Angelica (cfr. Fur. I 41, 3); l’espressione segnala la constatazione di una sconfitta. Il segnale è forse minimo ma di questo tipo sono quasi sempre quelli significativi in un testo come il Furioso.

Si potrebbe concludere che davvero il destino che porta allo scacco sociale il servo-poeta e quello che porta Orlando, il più deluso degli amanti delusi, all’abbrutimento dettato dalla verificata impossibilità dell’Amore, non sono troppo diversi. Non è solo la questione del quasi-parallelismo ma l’evidente incapacità ad accogliere gli ideali e i modelli della letteratura da parte di una realtà che, in ultima istanza, si rivela sempre e unicamente prosastica. Tenendo conto di questa “filosofia del minimo”, si può affermare che la natura della poesia ariostesca si fonda prima di tutto su una necessaria e iperletteraria, ma “onesta”, falsità che, pur non potendo preservare dai dolori, costringe al vaglio di un’etica sorridentemente, creativamente, e inevitabilmente ironica.



* Questo testo riprende, con modifiche e tagli, quello di un capitolo del volume di Alberto Casadei Ariosto: i metodi e i mondi possibili (Venezia, Marsilio, 2016). La revisione redazionale è stata curata da Valeria Noli. Si segnala qui che, per le citazioni dal Furioso si farà riferimento al testo dell’ed. critica Debenedetti-Segre, riportato, con correzioni minime, nell’ed. a c. di E. Bigi (voll. 2, Milano, Rusconi, 1982). A riscontro si è tenuto L. Ariosto, Orlando furioso – secondo la princeps del 1516, ed. critica a c. di M. Dorigatti, con la collab. di G. Stimato, Firenze, Olschki, 2006, nonché il recente commento alla prima redazione a c. di T. Matarrese, Torino, Einaudi, 2016.

 

 

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