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14 luglio 2017

Di Alberto in: Proposte

Nuove proposte contro l’autenticità dell’Epistola a Cangrande (I)


Si presentano qui, in più puntate, alcune delle recenti acquisizioni contro l’autenticità dell’Epistola a Cangrande, riassunte nel lavoro di Alberto Casadei uscito su “Studi Danteschi” nel 2016 (cfr. https://www.academia.edu/33524535/Sempre_contro_lautenticit%C3%A0_dellEpistola_a_Cangrande_in_Studi_Danteschi_LXXI_2016_pp._215-245)

1. Sull’autenticità dell’Epistola a Cangrande[1] si sta riavviando una discussione approfondita, che sembra fornire nuovi spunti rispetto alle tante e autorevoli ricostruzioni proposte nel corso del XX secolo. Sino agli anni Cinquanta del Novecento, erano molti gli studiosi che avevano ritenuto l’epistola dubbia o spuria; dopo le ricerche di Francesco Mazzoni, invece, si è in genere cominciato a considerare il testo autentico nella sua interezza, e così continuano a fare alcuni dei commentatori più recenti, come Manlio Pastore Stocchi, Claudia Villa e Luca Azzetta. Tuttavia, consistenti argomenti contro l’autenticità integrale erano stati portati, per motivi storici, filologici ed esegetici, da studiosi quali Augusto Mancini, Bruno Nardi, Giorgio Brugnoli, Henry A. Kelly, Jean Pépin (nei suoi ultimi lavori), e più di recente Zygmunt Barański e Carlo Ginzburg[2]. Molte delle obiezioni da loro poste in rilievo sono tuttora valide, ma sono state quasi sempre controbattute considerandole segno di difficoltà locali, eventualmente dovute alla trasmissione del testo. Invece, tenendo conto di tutti i dati attualmente a disposizione, è possibile confermare a livello sistemico molte delle singole obiezioni, che trovano un sostegno grazie all’incrocio di dati interni ed esterni, nonché alla valutazione complessiva degli indizi reperibili. Prima di entrare nel merito è però opportuno vagliare qualche assunto metodologico, che potrà poi essere utile per valutare la plausibilità di alcune ipotesi proposte.

Rispetto alle discussioni del secolo scorso è in effetti necessario valutare quali siano le prove e quali siano gli indizi che devono essere tenuti in considerazione per formulare una congettura adeguata. Dopo i lavori di Carlo Ginzburg sul paradigma indiziario[3], sono in realtà numerosi gli assestamenti nelle procedure filologico-investigative che andrebbero tenuti in considerazione per l’ambito umanistico: va in particolare esperita la possibilità di verificare la tenuta interpretativa non solo sulla base di tutti gli indizi anche minimi e marginali, testuali ed extratestuali, ma anche delle acquisizioni accertabili all’interno di banche dati e corpora molto ampi, per esempio riguardo alle sfumature semantiche di un termine, da cui può dipendere la sua collocazione nel contesto che si tenta di ricostruire[4]. Il secondo aspetto costituisce un importante correttivo riguardo alla valutazione dei singoli indizi: qualunque ipotesi ad hoc, ovvero nata per risolvere un problema puntuale, deve essere alla fine confrontata con le occorrenze di casi analoghi ricavabili da repertori tendenzialmente esaustivi, se non si vuole indicare come plausibile un’eccezione (e in questo caso si dovrebbe comunque render conto della scelta). Vanno quindi esaminati i rapporti interdiscorsivi, che possono fornire suggerimenti per delimitare le gamme semantiche di vocaboli, espressioni o interi passi; tuttavia, deve essere evitato un altro rischio, ora molto frequente, e cioè che essi vengano trasformati in rapporti intertestuali senza un’attenta valutazione[5]. In particolare, nel caso di Dante la possibilità di cogliere nuovi riscontri intertestuali è quanto mai ristretta; viceversa, molti studi recenti tendono a considerare semplici consonanze interdiscorsive come indizi che garantiscono un rapporto diretto, e ciò risulta rischioso là dove i contatti sono di tipo concettuale (questioni teologiche, filosofiche ecc.) senza alcun riscontro con una tornitura stilistica, come deve avvenire in ambito letterario.

Nel suo insieme, una corretta ipotesi interpretativa deve indicare quali prove e indizi sono ritenuti fondamentali in rapporto a specifici ‘punti critici’, ossia discriminanti riguardo al problema da risolvere, in primis l’autenticità di un testo; non può limitarsi a registrare le lacune o le contraddizioni perché, supponendo che esista una spiegazione più probabile, a quella si deve arrivare, per proporla alla discussione nella comunità scientifica. L’ipotesi più economica è ovviamente l’obiettivo ultimo di una corretta ricerca anche nel campo storico-letterario, ma vanno applicati gli inevitabili correttivi propri delle discipline non dotate di un paradigma ‘duro’. Nel caso di una presunta falsificazione andranno per esempio indicati non solo i motivi ma anche le modalità storicamente accertabili che hanno consentito al falsario di operare (disponibilità di modelli o materiali autentici da impiegare e imitare; competenze già diffuse riguardo allo stile di un autore ecc.). In particolare, la tendenza diffusa lungo tutto il periodo medievale a realizzare falsi (magari bono dolo) è assodata e addirittura esaminata per tipologie: la casistica consente di asserire che a un autore dotato di un largo seguito di pubblico potevano ben presto essere attribuite opere spurie[6].

 

2.1. Venendo all’esame della situazione dell’Epistola a Cangrande, va innanzitutto delimitato il campo dell’analisi, segnalando i punti critici che possono consentire di propendere per l’autenticità o meno. Ne possono essere individuati diversi, ma di certo almeno tre risultano fondamentali, che intanto ricordiamo qui sinteticamente[7].

Innanzitutto, bisogna stabilire se è possibile che il testo dell’Epistola così come ci è pervenuto venisse spedito assieme al Paradiso nella sua interezza. Che l’invio riguardi l’intera cantica viene dichiarato dal testo così come ci è pervenuto:

 

Neque ipsi preheminentie vestre congruum magis comperi quam Comedie sublimem canticam que decoratur titulo Paradisi; et illam sub presenti epistola tanquam sub epigrammate proprio dedicatam, vobis ascribo, vobis offero, vobis denique recommendo (III 11; ed. Cecchini, p. 6).

 

Il testo parla senza dubbio dell’invio dell’ultima cantica, termine specificamente dantesco che può indicare solo un gruppo di 33 o 34 canti dedicati a uno dei tre regni ultraterreni: e si noti che l’Epistola fa costantemente riferimento al poema ormai compiuto, e come tale lo commenta. Inoltre la formula ‘offero et recommendo’, o una simile, compare alla conclusione di opere coeve per indicare l’invio di un testo completo, posto sotto la protezione di un potente, come avviene, a puro titolo di esempio, nell’explicit dell’Ars compendiosa Dei di Raimondo Lullo. Ritorneremo più in dettaglio su questo punto (cfr. § 3.5), ma intanto notiamo che sembra impossibile trovare una data in cui l’intero Paradiso potesse essere inviato a Cangrande assieme all’Epistola. Infatti, le opere sicuramente dantesche, come le Egloghe, ci assicurano che la terza cantica non era stata divulgata tra il 1319 e il ’20 (cfr. Egl. II 48-51) e che, quando lo è (nella primavera-estate del 1321: cfr. Egl. IV 86-87), Dante si trova del tutto a suo agio a Ravenna con Iollas-Guido Novello da Polenta come suo generoso ospite.

 

2.2. Un altro problema si pone riguardo all’accessus che si legge nell’Epistola e al suo rapporto con quello contenuto nelle Expositiones di Guido da Pisa, di cui abbiamo una nuova edizione critica curata da Michele Rinaldi (per la redazione tràdita dal ms. di Chantilly, Musée Condé 597, ascritta al 1335-40), con in appendice la prima redazione detta delle Chiose laurenziane, edita per cura di Paola Locatin e di sicuro antecedente al 1333, se non al 1328[8]. Come è noto, si considera di solito che siano le Chiose (e poi le varie versioni successive) a dipendere dall’Epistola, tuttavia non esistono motivi concreti per avvalorare questa posizione. Ora, dato che l’accessus delle Expositiones mostra estesi e indiscutibili contatti con quello dell’Epistola addirittura verbatim, già segnalati in numerosi studi, il fatto che questi siano già presenti nella prima redazione del Prologo di Guido (cfr. l’ed. critica, pp. 1054-1059) costringe a presupporre (se non si ipotizza per ora l’esistenza di un proto-accessus antecedente a entrambi: ma su ciò si tornerà più avanti) che egli conoscesse in data molto alta l’autoesegesi dantesca, ma egli non ne cita mai l’autore e modifica il testo in parti essenziali come il titolo:

 

Libri titulus est: «Incipit Comedia Dantis Alagherii, fiorentini natione, non moribus». Ad cuius notitiam sciendum est quod comedia dicitur a comos villa et oda quod est cantus, unde comedia quasi ‘villanus cantus’. [...] Comedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur, ut patet per Terentium in suis comediis. Et hinc consueverunt dictatores quidam in suis salutationibus dicere loco salutis «tragicum principium et comicum finem» (X 28-29; ed. Cecchini, p. 12).

 

[…] nota quod libri titulus est iste: «Incipit profundissima et altissima Comedia Dantis, excellentissimi poete». Que quidem Comedia in tres canticas est divisa: prima dicitur Infernus, secunda Purgatorium, et tertia Paradisus. Profundissima dicitur quia tractat de inferis; altissima vero quia tractat de superis. Comedia autem ideo dicitur quia in principio est horribilis, sed in fine delectabilis (Guido da Pisa, Expositiones…, ed. Rinaldi, p. 1057).

 

È stato sostenuto che le profonde modifiche che Guido avrebbe apportato all’accessus nella versione dell’Epistola siano compatibili con la tendenza tipica dei commentatori a rimaneggiare testi precedenti, eventualmente senza un rispetto eccessivo nemmeno delle opere d’autore. Tuttavia, la fedeltà del carmelitano al dettato dantesco, e addirittura al metodo dell’interpretazione letterale, sarebbe subito fortemente incrinata, dato che in questo caso non solo verrebbero senza motivo rimaneggiate precise indicazioni autoriali, ma addirittura di queste modifiche non si farebbe alcuna menzione. Si deve allora ipotizzare che il testo pseudo-dantesco circolasse anonimo (ma, nella forma tràdita dall’Epistola, comunque un lettore dovrebbe intendere che l’autore dell’accessus è lo stesso dell’opera), forse diviso in più parti, e già questo costituirebbe un serio problema (quando e come, allora, venne ricomposto?); tuttavia emerge adesso con chiarezza una situazione che, in mancanza di un testo critico affidabile, non poteva essere acclarata.

La prima versione del Prologo di Guido da Pisa è configurata come un accessus del tutto coerente con gli schemi coevi e costituisce, come sempre, l’introduzione a un’opera secondo i sex inquirenda, scritta da un esegeta e non dall’autore stesso. Ciò comporta non solo una perfetta linearità di sviluppo, ma anche una serie di riferimenti adeguati per l’opera nella sua interezza, di cui appunto Guido intende parlare. Invece, com’è noto l’accessus dell’Epistola riguarda in specifico il Paradiso ma deve di continuo affrontare problemi che riguardano il poema tout court: ciò crea un andamento assai tortuoso, cosicché l’ordine dei sex inquirenda non solo non è rispettato, ma addirittura viene sconvolto al punto che dell’agens, cioè dell’autore dell’opera che però in questo caso sarebbe nel contempo autore dell’esegesi, non si dice nulla, salvo l’accenno in coda “Agens igitur totius et partis est ille qui dictus est, et totaliter videtur esse” (XIV 38: ed. Cecchini, p. 14).

Di fatto, se dovessimo ipotizzare la dipendenza di Guido dall’accessus nella forma attestata dall’Epistola, bisognerebbe parlare di una vera e propria ristrutturazione, tale da far tornare a un ordine canonico tutti i pezzi lì disposti in modo eccezionale (proprio per la duplice funzione di cui si è detto sopra). In sostanza Guido avrebbe ripreso le varie tessere di questo singolare accessus, le avrebbe depurate delle varie incoerenze e dei riferimenti specifici al Paradiso, avrebbe creato ad hoc parti fondamentali come quella relativa all’agens (cfr. ed. critica, p. 1056) e avrebbe poi proposto questa nuova versione come sua. Ma se Guido non era a conoscenza dell’autorevolezza dell’accessus ora conservato nell’Epistola, perché avrebbe dovuto sobbarcarsi una così notevole fatica, anziché sfruttare le sue ampie conoscenze per crearne uno nuovo? E se invece riteneva quell’accessus dantesco, perché modificarlo così ampliamente riguardo a questioni fondamentali e senza citare mai l’autore, anzi attribuendo a sé stesso il merito di varie spiegazioni con formule asseverative come ‘dico’ e simili? Se si accetta la dipendenza dell’accessus dell’Epistola da una versione del lavoro di Guido, oppure da un altro archetipo comune a entrambi (e su ciò cfr. più avanti § 3.3), si ha una diversa e importante prova a sfavore dell’autenticità.

 

2.3. Valutiamo ora un elemento del tutto interno, relativo all’incipit del Paradiso. In effetti, l’esegesi dei primi tre versi («La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove») risulta ancora piuttosto problematica. In genere, i commenti si limitano ad avallare l’interpretazione dell’Epistola, in cui gli ascendenti culturali del passo sono riconosciuti, oltre che in Aristotele e nella Bibbia, nello Pseudo-Dionigi del De coelesti hierarchia. I versi, in ultima istanza, direbbero solo che la gloria divina rifulge in gradi diversi. Tuttavia, già il testo stabilito da Petrocchi, confermato poi da Sanguineti, suggeriva un’altra lettura, sottolineando la struttura a chiasmo della terzina, che permette di riferire il verso 3 solo a «risplende» e non a «penetra», verbi solo apparentemente in dittologia (o addirittura in endiadi). In effetti qui Dante sta segnalando una differenza tra la pervasività assoluta della «gloria di Dio», espressione dalle ampie e complesse risonanze bibliche e patristiche, e la sua possibilità di ‘risplendere’, ovvero di manifestarsi nel suo aspetto di luce-splendore, possibilità determinata dalla «parte» dell’universo in cui si palesa. Di conseguenza, la «gloria» va distinta dalla «luce», che è un suo attributo epifanico, come dimostrano senza margini di dubbio i versi successivi: «Nel ciel che più della sua [sc. ‘della gloria divina’] luce prende / fu’ io…» (Pd. 1, 4-5). Stando alla lettera, è dunque necessario tenere distinti i termini «gloria» e «luce» in riferimento a Dio. In effetti, la «gloria» è qui quella specifica della ‘gloria Domini’, largamente attestata, che indica sin dal libro dell’Esodo il manifestarsi di Dio agli esseri umani in tutta la sua potenza (cfr. Es. 16.10; 24.16-17 ecc.). Inoltre, è molto importante la corretta interpretazione del sintagma «per l’universo penetra». Viene qui affermata la capacità della gloria divina di pervadere qualunque entità: e questo concetto, l’unico teologicamente sostenibile (perché in qualunque altro modo verrebbe limitata l’onnipotenza del Dio cristiano), trova numerosi riscontri biblici e patristici, specie in relazione al verbo ‘penetrat’[9].

Se però andiamo a esaminare il passo dell’Epistola a Cangrande che costituirebbe l’autoesegesi dell’incipit della terza cantica (XX-XXIII 53-65; ed. Cecchini, pp. 21-23), ci si accorge immediatamente di alcune equivalenze tra ‘gloria’ e ‘luce’ incongrue con quanto sinora riscontrato. Il punto decisivo è che il commentatore considera «penetra e risplende» come una dittologia, della quale peraltro si dilunga a spiegare solo il secondo termine. L’omissione si giustifica perché, sbrigativamente, nell’Epistola la «gloria di Dio» e la sua «luce» vengono equiparate: così si legge infatti nel finale della sezione citata: «Bene ergo dictum est cum dicit quod divinus radius sive divina gloria, ‘per universum penetrat et resplendet’» (c.vo mio)  e da quanto si legge nel passo immediatamente successivo:

 

Et postquam premisit hanc veritatem, prosequitur ab ea circumloquens Paradisum; et dicit quod fuit in celo illo quod de gloria Dei, sive de luce, recipit affluentius (XXIV 66; ed. Cecchini: p. 24, c.vo mio).

 

Tale esegesi non corrisponde alla lettera del testo dantesco, producendo una distorsione giustificabile solo ricorrendo a correttivi ad hoc (esistenza di lacune, costrutti brachilogici ecc.). Sono quindi forti gli indizi di un errore interpretativo non sanabile, che non potrebbe essere imputato all’autore. Anche su questo si tornerà più avanti (cfr. § 3.4).

Come è evidente, ciascuno di questi punti critici può consentire di stabilire se l’autore dell’Epistola è Dante o no. Se non è possibile individuare un periodo preciso in cui Epistola e Paradiso siano stati spediti assieme al signore di Verona; se Guido ha fornito materiali all’autore dell’accessus nell’Epistola, e non viceversa; se l’incipit del Paradiso deve essere spiegato in modo diverso, riguardo alla lettera, rispetto a quanto fa l’Epistola; in tutti questi casi l’autore, palesemente, non può essere Dante. Ed è lecito aggiungere che, essendo l’Epistola pensata come unitaria nella forma in cui ci è pervenuta, anche la dimostrazione di una sola delle ipotesi precedenti sarebbe sufficiente a dimostrare la falsità dell’insieme[10]. In ogni caso, allo stato attuale sono questi i punti essenziali per stabilire l’autenticità dell’Epistola: altre considerazioni (sulla maggiore o minore facilità di realizzare un falso come questo; sulla tradizione indiretta che garantirebbe una conoscenza piuttosto ampia del testo, ma solo introducendo surrettiziamente un’ipotesi aprioristica sulla diffusione originaria del testo; ecc.) risultano del tutto secondarie e al limite ininfluenti riguardo al problema fondamentale. (Continua).



[1] Si cita l’Epistola a Cangrande dall’edizione critica a cura di Enzo Cecchini, Firenze, Giunti, 1995 (con rinvio ai capoversi, ed eventualmente con l’indicazione ‘Epistola’), riscontrata con quelle commentate da Manlio Pastore Stocchi, in Dante, Epistole, Ecloge, Questio de situ et forma aque et terre, Roma-Padova, Antenore, 2012, pp. 96-131; da Claudia Villa, in Dante, Opere, vol. II, ed. a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 2014, pp. 1494-1521 e 1565-1592; e per ultimo da Luca Azzetta in Dante, Epistole, Egloge, Questio de aqua et terra, a cura di M. Baglio et alii, Roma, Salerno Ed., 2016, (vol. V della Necod), pp. 273-487, specie 326-417. Si citano il Convivio dall’edizione a cura di G. Fioravanti, canzoni a cura di C. Giunta, in Dante, Opere, cit., pp. 3-805, e le Egloghe dall’edizione a cura di G. Albanese, ivi, pp. 1593-1783.

[2] Per una sintesi, si vedano, P. De Ventura, Dante tra Cangrande e i falsari: gli ultimi vent’anni dell’Epistola XIII, in “Critica letteraria”, XL, 2012, 154, pp. 3-21, ripreso e aggiornato nel presente volume; nonché, di chi scrive, Dante oltre la “Commedia”, Bologna, il Mulino, 2013, specie pp. 15-75, e Sull’autenticità dell’Epistola a Cangrande, in Ortodossia ed eterodossia in Dante Alighieri. Atti del convegno di Madrid (5-7 novembre 2012), a cura di Carlota Cattermole et alii, Alpedrete (Madrid), La Discreta, 2014, pp. 803-830: quei contributi vengono qui ripresi e precisati, specie riguardo alla situazione dell’accessus. Per una discussione d’insieme, si veda da ultimo l’edizione a cura di Azzetta, cit.

 

[3] Particolarmente citato è C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario (1978-79), poi in Id., Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 1986, pp. 158-209. Ma vanno tenuti in considerazione i vari assestamenti proposti dallo studioso, sino alle raccolte di saggi Rapporti di forze. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2000, e Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, ivi, 2006, specie pp. 295 ss. (sull’analisi ginzburghiana dell’Epistola a Cangrande cfr. n. 36). Sul tipo di prova indiziaria in campo umanistico sono anche da vedere A.M. Hocart, Imagination and proof, Tucson, U. of Arizona P, 1987, che sottolinea l’importanza degli aspetti ‘circostanziali’ rispetto alle evidenze dirette; e Questions of evidence, a cura di J. Chandler et alii, Chicago, U. of Chicago P., 1994, dove vengono sottolineati anche alcuni limiti del paradigma indiziario-abduttivo, da correggersi, come anche qui si proporrà, con metodi statistici e analisi di repertòri. Più in generale, cfr. H. Love, Attributing Authorship: an Introduction, Cambridge…, Cambridge U.P., 2002, specie pp. 209-227.

[4] Il problema della valutazione degli indizi in rapporto a un orizzonte costante e ‘veritativo’ è ben presente negli studi sulle procedure investigative e giuridiche: si vedano da ultimo “L’operazione decisoria” da emanazione divina alla prova scientifica, a cura di L. De Cataldo Neuburger, Padova, Cedam, 2014; S. Haack, Evidence matters: Science, proof, and truth in the law, New York…, Cambridge U.P., 2014. Su un piano teorico, si veda soprattutto D. Walton, Argument, evaluation, and evidence, Heidelberg, Springer, 2015, specie pp. 35-67.

[5] Per la distinzione intertestuale/interdiscorsivo si veda C. Segre, Teatro e romanzo, Torino, Einaudi, 1984, pp. 103-118. Per un esempio sintomatico, si veda il recente contributo di C. Villa, Il pastore “senza legge”: una nota per Inferno XIX 83, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CXCII, 2015, 4, pp. 517-523, che ipotizza, per la condanna di Clemente V da parte di Dante, una lettura attenta di (e quindi un rapporto intertestuale con) documenti legati alle decisioni di politica ecclesiastica, da cui si sarebbe dovuto evincere un comportamento contra legem del pontefice. Ma “senza legge” è un sintagma interdiscorsivo, spesso adottato per sanzionare la condotta di uomini comuni (cfr. Guittone, Ah, quant’ho…, v. 35: “d’omo ch’è senza legge”; Giordano da Pisa, Avventuale fiorentino, ed. a cura di S. Serventi, Bologna, il Mulino, 2006, p. 183: “chi senza legge peccherà, senza legge sarà giudicato”: 20 dicembre 1304); oppure specificamente di governanti e potenti (come già nel commento di Servio al I dell’Eneide, § 73: “a regibus sine lege…”). Risulta quindi ben poco probabile che Dante abbia dovuto compulsare documenti di difficile reperimento per ideare un sintagma così diffuso (e genericamente negativo, senza bisogno di avalli giuridici).

[6] Oltre alla bibliografia reperibile nel già citato Dante oltre la “Commedia”, specie p. 140, cfr. U. Eco, La falsificazione nel Medioevo, in Id., Scritti sul pensiero medievale, Milano, Bompiani, 2012, pp. 731-774, specie 756 ss. sui vari processi messi in atto durante il periodo storico che è stato suggestivamente definito “il più lussureggiante giardino di falsi che la storia conosca” (cfr. L. Valla, La falsa donazione di Costantino, a cura di G. Pepe, Milano, Tea, 1992, p. 19).

[7] Per un’illustrazione più ampia di tutti i punti seguenti, si rimanda al citato Sull’autenticità dell’Epistola a Cangrande.

[8] Si farà riferimento alla recente edizione di Guido da Pisa, Expositiones et Glose – Declaratio super ‘Comediam’ Dantis, a cura di M. Rinaldi, Appendice (Chiose laurenziane) a cura di P. Locatin, Roma, Salerno Ed., 2013, tomi 2. Torna sull’argomento Luca Azzetta nel suo commento cit., specie pp. 428-444, però senza affrontare i problemi essenziali di cui si dirà qui a testo. Terrò poi conto di un lavoro di Fabrizio Franceschini (Guido da Pisa e l’Epistola a Cangrande, in corso di stampa in una miscellanea di studi in onore di Lucia Ricci Battaglia), che ho letto in dattiloscritto per la cortesia dell’autore e che, considerando anche altri stadi del commento guidiano, ripropone con validi argomenti l’ipotesi dell’esistenza di un proto-accessus, scritto subito dopo la prima divulgazione del poema completo a Bologna (aprile-maggio 1322) ma non attribuibile a Iacopo Alighieri, all’epoca estensore della sola Divisione..Punti problematici erano stati segnalati già da H.A. Kelly (di cui si vedano Tragedy and Comedy from Dante to Pseudo-Dante, Un. of California P., Berkeley,1989, pp. 12 ss. e Ideas and Formas of Tragedy from Aristotle to the Middle Ages, Cambridge U.P., Cambridge, 1993, pp. 144-157), anche se ora vari punti della sua ricostruzione andrebbero aggiornati. Ancora istruttiva la Cangrande Dispute ospitata nella Lectura Dantis dell’University of Virginia: H.A. Kelly, Cangrande and the Ortho-Dantists - R. Hollander, Response to Henry Ansgar Kelly – H.A. Kelly, Reply to Robert Hollander, Lectura Dantis (Un. of Virginia), 13-14 (spring-fall 1994), pp. 61-115.

 

[9] Si veda ancora Dante oltre la “Commedia”, cit., pp. 34-43. Contrariamente a quanto è stato fatto in numerosi contributi recenti, la mia analisi non tentava di individuare specifiche fonti intertestuali, ma delimitava, grazie all’esame di un’ampia casistica interdiscorsiva, la valenza semantica più probabile dei termini fondamentali di Pd. 1, 1-4, a cominciare da quella desumibile dal sintagma biblico e patristico “Gloria Domini (o Dei)”. Risultano perciò sfuocate le obiezioni espresse da S. Sarteschi, In merito alla punteggiatura di “Paradiso” I 1-3 in relazione all’Epistola XIII, in “Tenzone”, 16, 2015, pp. 209-226 (specie pp. 213 s., dove si propongono fra l’altro alcune deboli congetture basate su concordanze a senso anziché su una corretta costruzione sintattica). Per integrazioni bibliografiche, cfr. infra, n. 40$.

[10] Ciò non toglie che sussista la possibilità che una parte dell’Epistola (quella antecedente alla dedica) sia autentica, o quanto meno dipenda da un originale autentico. Nei primi paragrafi della nuncupatio sono state infatti individuate concordanze con altre opere dantesche, in alcuni casi difficilmente attribuibili a un imitatore: la più sottile è la presenza, già notata nei commenti, di “sine discretione” in Epistola, § 7 (“Sed habet imperitia vulgi sine discretione iudicium”) e dipendente non dalla fonte primaria (Boezio, Consol., III, vi, 1-6) ma dal Convivio (I, xi, 8), dove appunto Dante aggiunge “senza discrezione”.

 

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