Di Alberto in: Proposte

Una recensione a “Biologia della letteratura”


Una recensione di Stefano Di Pino, uscita su “Oblio”, VIII, 2018, 29, pp. 143-145.

Siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni? La celeberrima citazione shakespeariana nel
lavoro di Casadei – che la pone come esergo – viene capovolta e trasformata in un interrogativo che
percorre l’intero saggio. Tra astrattezza e concretezza, oscurità ed eventfulness, come un pendolo
l’autore oscilla tra questi estremi narratologici con l’intento, dichiarato in più punti, di addensare
attorno a considerazioni di carattere biologico-cognitivo appunti per l’edificazione di uno strumento
di lettura dinamico e fluttuante, che possa così rispondere ai grandi interrogativi posti dalla cultura
contemporanea. Nel farlo l’autore si muove con grande perizia su una linea diacronica sterminata,
che parte dalle pitture rupestri delle grotte di Lascaux sino ad arrivare ai fenomeni virali al tempo
dei social. Sembra quasi ingeneroso limitare l’apporto teorico di questo libro all’ambito letterario,
giacché tra le conclusioni cui si perviene sta proprio l’idea di un «depotenziamento di ogni ipotesi
che riproponga il valore assoluto e originario del Linguaggio e della Parola» e l’auspicio per la
cultura contemporanea, sulla scia di pensatori quali Jacques Derrida e George Steiner, di «un’arte
che riesca a stilizzare aspetti intermediali» (p. 206).
Nella sua introduzione, La materia dei sogni, Casadei pone importanti linee guida: il saggio, che
pure si iscrive nell’alveo di quella teoria della letteratura che prende in considerazione gli aspetti
scientifici della creatività umana, non dipende dalle ricerche che mettono in relazione le attività
cerebrali e la percezione estetica, o che indagano sulla sfera pre-razionale in virtù di percorsi neurali
e cambiamenti di equilibri chimici; il saggio lavora con queste ricerche al fine di interpretare i
fenomeni artistico-letterari e i loro presupposti biologico-cognitivi «finalizzati a un riuso simbolico,
e in specie a una selezione e a un ritagliamento del reale attraverso una stilizzazione che veicoli
nuclei di senso dotati di una capacità attrattiva» (p. 25). Pertanto stile e nuclei di senso diventano
elementi inscindibili o quanto meno lo stile, lungi dall’essere un insieme di tratti formali, diventa un
un’operazione complessa, frutto di higher-level properties, che rende possibile l’uso finalizzato di
specifiche propensioni cognitive. È una questione di stile, ma uno stile assai distante dallo scarto
patologico di Leo Spitzer; lo stile inteso da Casadei è quello che, citando Nietzsche, «fa raggiare la
sua forza a destra, a sinistra e sull’insieme» (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Milano, Casa
editrice sociale, 1924, p. 165), veicolando così nuclei di informazioni attraverso potenzialità
biologico-cognitive che contribuiscono a rendere un’opera unica e degna di suscitare emozioni e
reazioni indipendentemente dal contesto storico in cui viene usufruita.
È nei primi due capitoli che viene edificato il ponte che mette in comunicazione i presupposti
biologici e la creazione artistica e letteraria. Tra le potenzialità biologico-cognitive mutuate dagli
studi più recenti su corpo-cervello-mente (attenzione/percezione attimale, ritmicità/ricorsività,
mimesi/simulazione incarnata, blending/metaforizzazione), è sul blending che Casadei incentra il
proprio lavoro, in quanto potenzialità cognitiva in grado di vantare, secondo gli assunti della
linguistica cognitiva, una rilevanza immediata nella costituzione di un’opera letteraria e dei suoi
nuclei di senso. Il blending è un concetto-ponte assai importante, comune peraltro a numerosi
ambiti disciplinari ma che assume in questo caso il precipuo valore di «informazione fondamentale
sul vivere, […] da trasmettere ai propri simili per migliorare la possibilità di sopravvivenza» (pp.
39-40). Un concetto che si carica anche di valori antropologici, intesi cioè come necessità
dell’individuo di raccontare e di credere ai racconti (propri e di altri) al fine di veicolare conoscenza
e di configurare una risposta concreta a interrogativi più o meno vasti. Lo strumento di trasmissione
che garantisce il perpetuarsi dei nuclei di senso indispensabili è proprio lo stile, che agisce come un
attrattore per «costringere a riconoscere un nucleo di senso» (p. 40). Attrattivo non è solo lo stile in
sé, ma anche e soprattutto il risultato del suo processo, che arricchisce il contenuto di livelli di senso
ulteriori attraendo l’attenzione dei fruitori verso punti specifici. La differenza tra la Commedia di
Dante e opere coeve non sta nel mero contenuto, pure a suo modo significativo, ma nella capacità
dell’autore di sfruttare strumenti attrattivi per glorificare i contenuti ed elevarli così a un livello di
significazione superiore. Risulta a questo punto evidente la differenza tra il concetto di attrattore
così configurato e quello di punctum, che ci riconduce immediatamente alla Chambre claire di
Roland Barthes. L’attrattore è una zona di convergenza del sistema che viene tradotta dall’autore
dal mondo reale a quello possibile dell’opera, il punctum un’epifania del fruitore, un effetto trigger
suscitato a livello emozionale da una potenzialità attrattiva latente che entra in cortocircuito con una
«predisposizione a individuare un attrattore specifico» (p. 41). È partendo da queste basi teoriche
che Casadei elabora una ricostruzione storica dettagliata delle teorie dello stile che va dal sistema
aristotelico alle più recenti questioni contemporanee senza distinzione di veicolo artistico,
prendendo in considerazione le iperboli corporee delle veneri steatopigie, l’attrazione suscitata dalle
metafore teriomorfe (come quella che mette di biunivoca corrispondenza Gilgameš e il grande toro
per sottolineare allo stesso tempo le superne capacità di Gilgameš e la sua caducità), sino ad
arrivare all’ingigantimento pop di una striscia di fumetti, o la riproduzione di infinite Marilyn in n
colori. Si tratta insomma di un’approfondita indagine in cui l’autore, a dispetto del titolo del saggio,
si spinge anche oltre le acque sicure della letteratura per indagare lo stile come strategia di
attrazione evoluzionisticamente orientata alla trasmissione di nuclei di senso.
Il capitolo terzo, Generatori e limiti, si concentra sui nuclei di senso nella loro collocazione tra gli
estremi di oscurità ed eventfulness. Se quest’ultimo è un termine anglosassone che Casadei impiega
per definire la pienezza di quello che si narra, l’oscurità è intesa come «annullamento delle
coscienze condivise» (p. 10), ma anche manifestazione dell’inconscio cognitivo attraverso quello
che suggestivamente Casadei definisce l’«inceppamento del canale» (p. 127) di comunicazione, che
vede venir meno la chiarezza classico-oraziana in favore di un collegamento tra pre-razionalità e
letteratura. Trovandoci per la prima volta davanti quella che si potrebbe definire, sotto determinati
punti di vista, una coppia oppositiva, mi preme dare sostanza a un’osservazione su uno degli assunti
metodologici di questo saggio, ossia la necessità di interpretare i fenomeni secondo i caratteri di una
«gradualità/scalarità» (p. 27): Casadei analizza l’oscurità del testo letterario secondo una scala
dettagliata che partendo da un’oscurità non risolvibile, e passando per i vari gradi di oscurità
«risolvibile» e «interpretabile», perviene al grado estremo di oscurità apparente, definita nei termini
delle mancate chiavi di decodifica. Allo stesso modo gli eventi della narrazione sono classificati in
livelli semplici e complessi, dall’aneddotica antica sino ad arrivare all’intreccio neutralizzato dei
romanzi post-moderni.
Le premesse metodologiche dei primi capitoli trovano una naturale esemplificazione nella quarta
sezione del libro, dedicata alla nascita e definizione di un classico per approdare poi alla
discussione, assai più elaborata, di come i classici possano perdurare nel tempo. È questa
un’introduzione di quanto poi verrà trattato nel capitolo conclusivo, il più spregiudicato e soggetto a
critiche perché, prefiggendosi di discutere «sulla e nella contemporaneità» (p. 173), è quello che
poggia su basi teoriche meno solide. Rimane ineludibile il merito di aver definito, seppur sulla base
di dati «sicuramente grossolani» (p. 178), i termini di quello «spostamento dei confini artistici» che
sta conducendo a una fusione tra vita e arte «sia pure a un potenziale bassissimo» (p. 180). Le
considerazioni di Casadei sul depauperamento del valore assoluto del linguaggio e sulla necessità di
pervenire a una dimensione artistica intermediale possono forse spaventare e suscitare effetti
analoghi alla Dialettica negativa di T. W. Adorno, che come lo stesso Casadei sottolinea aveva
individuato, mutatis mutandis, quel processo di appiattimento per standardizzazione verso il quale il
Cloud sembra inevitabilmente fluttuare. Cionondimeno, al netto di qualche passaggio a dir poco
utopico (equivalenza universale basata sulla diffusione di una cultura open-source basata sui
significati come strumento di superamento di un’economia asimmetrica), questo saggio mi pare
offra degli interessanti spunti sulle possibilità di sopravvivenza dell’arte intesa come thick
description del mondo reale e dei mondi possibili proprio nell’accezione che Clifford Geertz dà in
The Interpretation of Cultures (1973) e, prima di lui, Gilbert Ryle in What is le Penseur doing?
(1968).
In ultima istanza è interessante rilevare il passaggio in cui risulta più evidente una sorta di
definizione della «teoria liquida» di Casadei, rinvenibile tra le righe della nobilitazione dell’inventio
dantesca. Lo stile di Dante, quello stile che è il risultato di un processo di arricchimento della
materia letteraria operato da procedimenti biologico-cognitivi, è sostanza plasmata da sapienti mani,
ma solo un’analisi stilistico-cognitiva può cogliere quella polvere di stelle, risultanza di tensioni
biologiche, che trasforma il testo letterario in un classico, un’opera, cioè, fatta della stessa materia
di cui sono fatti i sogni.