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1 dicembre 2021

Di Alberto in: Proposte

Un contributo sul “Fiore”


Un’analisi riguardo all’autenticità del Fiore attribuito a Dante Alighieri.

 

“Durante” nel Fiore: allusione all’autore o solo nome di personaggio?

 

 

“Durante” in the Fiore: allusion to the author or only a character’s name?

In questo articolo, si osserva che l’autore del Fiore elimina tutti gli elementi che consentivano una chiara identificazione dei nomi degli autori nella Rose. Sembra allora più probabile che il nome “Durante” riguardi esclusivamente il protagonista e narratore, e non l’autore stesso dei 232 sonetti.

In this article, it is observed that the author of the Fiore eliminates all the elements that allowed a clear identification of the names of the authors in the Roman de la Rose. It seems then more likely that the name “Durante” refers exclusively to the protagonist and narrator, and not to the author of the 232 sonnets.

Keywords: Dante Alighieri, authenticity, Fiore, Roman de la Rose, Durante.

In un recente contributo su alcuni passi del Fiore, Marco Berisso ha invitato a concentrare l’attenzione sulle tecniche compositive e sugli espedienti comici adottati dall’autore, nient’affatto un semplice “parafraste” del Roman de la Rose, ma un abile rielaboratore, al di là della tecnica centonaria che gli è stata attribuita (e che peraltro è in qualche caso palmare): cosicché un’analisi analoga estesa a tutta la serie dei sonetti potrebbe confermare l’intenzionalità dei procedimenti e restituirebbe “un profilo autoriale tutt’altro che banale. E che questo profilo non abbia poi un nome accertato mi pare, alla fine dei conti, un problema serenamente eludibile”.[1]

Ora, è vero che il valore di un testo come quello del Fiore non può essere subordinato solo all’identità del suo autore, e tuttavia è innegabile che la sua presenza o meno nel canone delle opere di Dante è stata, soprattutto dopo gli interventi di Gianfranco Contini, foriera di letture d’insieme della sua produzione assai divaricate. La stessa collocazione cronologica della stesura del Fiore, ormai oscillante tra la metà degli anni Ottanta e la fine del decennio successivo del XIII secolo, può avere una ricaduta dirompente sulla periodizzazione della lirica pre e post-vitanovesca, e addirittura di diverso orientamento dell’assolutezza o meno dell’impegno beatriciano nella Vita nova.[2] Se quindi, in sé, l’identità dell’autore potrebbe non essere un problema discriminante, lo diviene nell’ambito della ricostruzione delle tappe fondamentali della prima fase dell’opera dantesca, almeno sino alla svolta dell’esilio.

In questo senso non è inutile, sulla scorta delle indagini più recenti,[3] tornare su uno dei punti da sempre considerati molto rilevanti per l’identificazione dell’autore: il sonetto 82, al cui v. 9 compare (in clausola) il nome “Durante”, poi ripreso, nella forma “ser Durante” in 202, 14. Ma la prima occorrenza risulta assai importante perché il nome è inserito in un passo della Rose in cui si esplicita il nome del primo autore, “Guillaume de Lorriz” (v. 10.496), peraltro nominato così dal suo successore, Jean de Meung, ossia qui “Johans Chopinel” (v. 10.535). In genere si considera plausibile che l’autore reale del Fiore abbia voluto esplicitare il suo nome proprio, appunto Durante, e semmai si discute se costui possa essere l’Alighieri che risulta sempre appellato con l’ipocoristico Dante, usato dai suoi interlocutori (Cino, Cecco, uno o più anonimi…) e presente, senza incertezze nella tradizione, anche in Purg. XXX 55 (“Dante, perché Virgilio se ne vada…”: e sono le prime parole della ritrovata Beatrice).[4] Il problema sembra legato più all’uso onomastico esterno che non al luogo testuale.

E tuttavia, analizzando il contesto della Rose in cui si colloca la nominatio, può emergere qualche rilievo interessante. In effetti Jean nomina il suo predecessore dopo un passo di tipo metanarrativo, nel quale a lungo (quanto meno dal v. 10.474) lamenta, attraverso la figura di Amore, una pesante serie di perdite tra i maggiori autori latini di versi amorosi (Tibullo, Gallo, Catullo, Ovidio: vv. 10.477 e 10.492); al termine si annuncia appunto che anche l’altrimenti sconosciuto Guillaume de Lorriz è in grave pericolo (“il est en perill de morir”, v. 10.499): ma questo fedele servitore deve salvarsi per “conmancier le romant” (v. 10.519), ovvero la Rose stessa, che poi peraltro non sarà in grado di portare a termine, venendo sostituito, una volta sceso nella tomba, appunto da Jean Chopinel (vv. 10.531 ss.), pure lui fedelissimo di Amore e comunque destinato a vivere abbastanza per terminare il Roman (vv. 10.588 ss.).

Di questo cospicuo inserto non resta praticamente traccia nel Fiore, salvo appunto la necessità da parte di Amore di salvaguardare “Durante” (82, 9), considerato “fin amante” (v. 11), ma di cui non si dice affatto che si tratti anche dell’autore del testo in fase di scrittura, ossia il Fiore.[5] In altri termini, proprio perché il suo autore reale si dimostra attento alle dinamiche narrative dell’originale, possiamo immaginare che qui abbia volutamente eliminato tutti i riferimenti che consentivano l’identificazione degli autori della Rose, facendo capire che si trattava di poeti ‘reali’ (come i latini menzionati) e non di personaggi. Viceversa, la scelta dell’autore del Fiore è quella di ridurre il nome del protagonista a un inidentificabile “Durante” che svolge, nella corona di sonetti, solo ed esclusivamente il ruolo appunto di personaggio-narrante, mentre l’intero apparato della Rose che rendeva indubitabile l’introduzione di nomi ‘reali’ è stato scientemente cassato.

A riprova di questa logica interna, si deve considerare anche il secondo e, in questo caso, del tutto originale riferimento appunto al personaggio in 202, 13-14. Il testo recita: “ma spesso falla ciò che ’l folle crede: / così avvenne al buon di ser Durante”, e, siccome è l’Amante stesso a parlare, si tratta di un auto-riferimento ironico, garantito appunto dall’appellativo “ser”, spesso usato con valenza comica anche nel Fiore (cfr. 129, 10; 136, 1; 226, 14: sempre riferito a personaggi allegorici) e comunque inapplicabile al Dante Alighieri reale.[6]

Tutto lascia quindi intendere che l’autore del Fiore non desiderasse affatto farsi riconoscere come “Durante”, ma abbia deciso di lasciare questo nome parlante al solo protagonista-narratore, riferito da tutti i commentatori sia alla sua pazienza, sia anche a speciali prestazioni nel coito, in questo senso amplificando, come suo costume, gli aspetti basso-realistici dell’originale. In altri termini, è proprio l’operazione specifica di eliminazione del contesto originale a far sì che la nominazione non possa che riferirsi, nella logica interna del Fiore, al protagonista-narrante ed esclusivamente a lui; il fatto di rendere interamente allusivo l’eventuale riferimento all’autore non può essere considerato un obiettivo secondario, perché nessuno, al di fuori di una ristrettissima cerchia di eventuali amici personali dell’autore, avrebbe mai potuto riconoscere in questo modo l’autore stesso, mentre invece la specifica congruità onomastica con le caratteristiche al personaggio, secondo la ben nota tecnica del ‘nome parlante’, giustifica appieno una scelta che appunto era solo in funzione di una perfetta resa narrativa (l’Amante è, con “consequentia” del tutto adeguata, “Durante”).[7]

Che nelle strategie narrative già classiche, e poi dei romanzi medievali, fosse percepibile la distinzione tra autore ed eventuale narratore interno è evidente ben prima di Boccaccio: e un caso come quello della narratrice Fiammetta rielabora una tradizione ovidiana di epistole scritte da personaggi storico-mitologici. La nominatio dell’autore, quando avviene, risulta in genere esplicita e inequivocabile, come nel caso di Chrétien che, dopo aver dato per esempio il titolo di “Chevalier de la Charrete” esplicita che “comance Crestïens son livre” (Lancelot, vv. 24-25, ed. Poirion), così come poi, nell’epilogo (vv. 7098-7112), si autonomina esplicitamente “Godefroiz de Leigni, li clers” nel suo ruolo di ‘collaboratore’.[8] Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma è evidente che la strategia testuale adottata da chi ha scritto il Fiore non è quella di imporre al lettore un’equivalenza tra l’autore ‘reale’ e il personaggio narrante (oltretutto nemmeno unico) del testo: il dato indiscutibile è che manca ogni elemento paratestuale o metanarrativo a garanzia che il personaggio di Amante, coinvolto in vicissitudini chiaramente allegoriche, coincida con l’autore, mentre potevano e dovevano esserci, stando anche solo al modello della Rose.

Si potrebbero poi addurre numerosi esempi di nomi parlanti introdotti da “ser” o “messer” nella tradizione comica due-trecentesca. Spesso è probabile che si tratti di personificazioni del membro maschile, ma a volte si gioca sull’ambiguità, come nel caso di Quando ser Pepo vede alcuna potta di Rustico Filippi, mentre in altre occorrenze pare che l’onomastica sia esclusivamente evocativa, come per il “ser Chiavello” di un sonetto di Mino da Colle. E, tralasciando numerosissimi quanto ripetitivi esempi simili, si arriva all’indubitabile “messer Mazzone” di Boccaccio, secondo quanto si legge in Ninf. Fiesol. 245, 1-2 (“Ma poi che messer Mazzone ebbe avuto / Monteficalli…”), con scontati campi metaforici che coinvolgono, come nel Fiore, la conquista del castello, la battaglia, lo spargimento di sangue e di seme ecc.

Sembra dunque evidente che il nome parlante “Durante” sia più che adeguato in un contesto che appunto voleva elidere la personalizzazione del protagonista, rendendolo invece un puro personaggio, sia pure con funzioni di narratore (parziale) del racconto. La logica, fra l’altro, è ben distinta da quella seguita da Brunetto Latini nel Tesoretto. Infatti, nel proemio Al valente signore, dunque in un ambito che possiamo considerare paratestuale, l’autore si autonomina in forma completa e riconoscibile in modo inequivocabile (“io Burnetto Latino, / che vostro in ogne guisa / mi son sanza divisa, / a voi mi racomando”, vv. 70-73), mentre poi, nel testo, può comparire come personaggio (“mastro Burnetto”, due occorrenze vv. 1183 e 2240; anche “fi’ di Latino”, v. 1133), quasi marcando con l’appellativo la distinzione rispetto all’autore ‘reale’, che ricompare poi nella conclusiva Penetenza (v. 5: “Burnetto Latino”).[9] Proprio questo duplice regime avrebbe dovuto spingere, in Fiore 82, 9, a introdurre non il solo nome proprio bensì una forma chiara di identificazione dell’autore, in perfetta analogia con quanto avviene nella Rose; Brunetto Latini si può invece permettere la sola indicazione da personaggio all’interno della narrazione, avendo delegato la nominazione completa ai luoghi para o extratestuali. Comunque, qui non si crea nessuna possibile ambiguità onomastica inerente alla strategia dell’autore del Fiore, che non deve obbligatoriamente chiamarsi “Durante” e anzi opera perché il lettore non possa riconoscere questo come suo nome proprio.[10]

In conclusione, chi ha elaborato il Fiore ha agito sulla Rose in modo da eliminare, in particolare nel sonetto 82, tutte le marche testuali che potevano condurre al riconoscimento di un nome personale, per lasciare invece l’onomastica di “Durante” al personaggio di Amante, almeno per il lettore che non voglia procedere a funamboliche ricostruzioni a ritroso di quanto invece è stato eliminato appositamente. Sembrerebbe quindi di dover lasciar cadere l’ipotesi che di sicuro il protagonista Durante debba coincidere con un autore di nome identico, al limite noto con l’ipocoristico “Dante”.[11]



[1] M. Berisso, Cosa chiedere al “Fiore”, in Per Enrico Fenzi. Saggi di allievi e amici per i suoi ottant’anni, a cura di P. Borsa et alii, Firenze, Le Lettere, 2020, pp. 241-259 (la citazione è dalla chiusa dell’intervento): a questo lavoro si rinvia anche per una bibliografia aggiornata. Per le citazioni del Fiore si fa riferimento alle seguenti edizioni: Fiore – Detto d’Amore, a cura di P. Allegretti, Firenze, Le Lettere, 2011; Fiore – Detto d’Amore, in Dante, Opere di dubbia attribuzione e altri documenti danteschi, Necod VII.1, Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, Roma, Salerno Ed., 2012. Per il Roman de la Rose, si segue l’edizione (secondo il testo Lecoy) con traduzione e commento a cura di M. Liborio e S. De Laude, Torino, Einaudi, 2014.

[2] Imprescindibili, ovviamente, gli studi di Gianfranco Contini confluiti nella sua edizione critica (Milano, Mondadori, 1984): e si veda G. Gorni, Dante: storia di un visionario, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 41 ss per una sintesi della discussione sino agli inizi del XXI secolo (perciò senza alcune importanti acquisizioni successive). Si noti però che, nell’ipotesi di un riadattamento anche al Fiore dello schema del personaggio-autore (se non proprio poeta), in queste ricostruzioni venivano obliterate le profonde differenze tra il protagonista del Fiore, che non ambisce ad alcun tipo di connotazione ‘realistica’, e quello del poema (ma, in questo senso, in parte già quello della Vita nova), che invece ambisce primariamente a farsi riconoscere nella duplice veste di agens e di auctor appunto come unico individuo. Su ciò torneremo più avanti.

[3] Per una sintesi, si veda in particolare Fiore. Il testo e il commento, in Lopereseguite, Atti degli incontri sulle opere di Dante, vol. I (Vita nova, Fiore, Epistola XIII), a cura di P. Allegretti e N. Tonelli, Firenze, Sismel-Edd. del Galluzzo, 2018, pp. 197-270 (con contributi di P. Allegretti, L. Formisano, L.C. Rossi, P. Stoppelli, peraltro non inerenti al problema qui affrontato). Tra gli altri contributi recenti, anche per ulteriore bibliografia, si vedano almeno: P. Stoppelli, Dante e la paternità del “Fiore”, Roma, Salerno Ed., 2011; P. Canettieri, Il “Fiore” e il “Detto d’Amore”, «Critica del testo», XIV, 2011, 1, pp. 519-530; Sulle tracce del “Fiore”, a cura di N. Tonelli, Firenze, Le Lettere, 2016 (in particolare il contributo di A. Montefusco, con importanti acquisizioni riguardo alla cronologia dei riferimenti storici); L. Formisano, Qualche riflessione sul “Fiore”, «Critica del testo», XIX, 2016, 1, pp. 191-204. In generale, utile per un inquadramento storico The “Roman de la rose” and the Thirteenth-Century thought, a cura di J. Morton e M. Nievergelt, Cambridge…, Cambridge U.P. 2020 (con sezione finale dedicata anche al Fiore).

[4] Va notato che, rispetto alla nominazione nel poema, esiste comunque una differenza di status evidente: quando scrive il XXX canto del Purgatorio, Dante è ormai un autore affermato, che può permettersi di citare più volte suoi testi (addirittura in maniera indiretta, risemantizzando poco dopo, v. 115, il sintagma “vita nova”) e non ha certo bisogno di aggiungere il nome familiare oltre al suo proprio. Viceversa, all’altezza del Fiore, Dante comunque non poteva contare su una notorietà tale da essere riconoscibile con il solo nome proprio “Durante”, che per di più non sarebbe quello per lui consueto nelle corrispondenze letterarie. Su alcuni di questi temi, importante già A. Lanza, Il “Fiore” e il “Detto d’Amore”: Ser Durante, non Dante Alighieri. Storia di un miraggio, in Id., Primi secoli: saggi di letteratura italiana antica, Roma, Archivio Guido Izzi, 1991, pp. 64–80. Per altre considerazioni e per bibliografia specifica, si vedano le note 6 e 7.

[5] Si vedano, riassuntivamente, i citati commenti di Allegretti, pp. 330 e 450, e Formisano, pp. 131 s. e 306.

[6] Sull’onomastica del Fiore, B. Porcelli, La nominazione dei protagonisti nel “Fiore”, nella “Vita nuova”, nella “Commedia”, “Italianistica”, XXVII, 1998, 2, pp. 221-231. Si noti comunque che, se la datazione ora più probabile almeno di una prima stesura del Fiore è quella degli anni Novanta, risulterebbe davvero singolare che Dante, ormai esplicitamente entrato nel circuito letterario con l’ipocorismo, si firmasse invece con il nome anagrafico, rendendo se non altro più ambiguo il riconoscimento. Inoltre, bisogna sempre ricordare che, in quel periodo, erano davvero pochi i lettori in grado di aver accesso alla Rose nella sua interezza, quindi era del tutto improbabile che si potesse intuire che “Durante” stava al posto di “Guillaume” nell’originale: ancora una volta la strategia comunicativa, se l’autore voleva far intendere che tale era il suo nome, doveva essere semmai quella di enfatizzare e non di cassare i segnali in questa direzione, visto che non si poteva supporre una larga conoscenza del testo parafrasato.

[7] Sulle varie strategie dei ‘nomi parlanti’, si veda M. Zaccarello, Primi appunti tipologici sui nomi parlanti, “Lingua e stile”, XXXVIII, 2003, 1, pp. 59-84. Per ulteriori considerazioni, cfr. P. Canettieri, Il Fiore (e il Detto d’amore), in Dante, a cura di R. Rea e J. Steinberg, Roma, Carocci, 2020, p. 191 (ma in generale il contributo, a pp. 179-196, sintetizza molti dubbi e molte proposte attributive, anche su basi stilometriche).

[8] Sulle questioni aperte, si veda almeno The legacy of Chrétien de Troyes, a cura di N.J. Lacy, D. Kelly e K. Busby, Amsterdam, Rodopi, 1987, I, pp. 191 ss. Sulle differenze rispetto alla situazione di Purg. XXX 55, cfr. n. 4. Va notato che il caso del Fiore, inquadrato in una dinamica narrativa, risulta in buona parte diverso da quello dell’onomastica occultata e risolvibile per via enigmistica di singoli componimenti poetici, in cui ovviamente prevale il rapporto specifico fra mittente e destinatario; viceversa, in testi rivolti a un pubblico ampio la riconoscibilità dell’autore è garantita dalla definizione completa del nome proprio e del casato o di altra indicazione caratterizzante: cfr. A. Carrega, Il sospetto di un nome. Onomastica criptata in alcuni testi medievali, “il Nome nel testo”, XVII, 2015, pp. 285-298, specie 291-295 (sul caso, molto discusso, di “Jehan Maillart” nel Comte d’Anjou); l’autrice si occupa anche brevemente del Fiore (pp. 295-297), rifacendosi soprattutto a lavori precedenti, come quello di G. Gorni, Il nome e il casato di Dante (e di Durante, Dante Allegri e Lippo), “il Nome nel testo”, I-II, 2000-2001, pp. 271-285, specie 275-278, pagine in cui però non si distingue mai con chiarezza tra autore ‘reale’ e ‘personaggio narratore’, come è indispensabile per non avallare ragionamenti di secondo grado rispetto alla lettera del testo.

[9] Per le citazioni, si è seguito il testo contenuto in Brunetto Latini, Poesie, a cura di S. Carrai, Torino, Einaudi, 2016. Sui caratteri della narrazione nel Tesoretto, cfr. almeno R. Librandi, La didattica fondante di Brunetto Latini: una lettura del “Tesoretto”, “Cahiers de recherches médiévales et humanistes”, 23, 2012, pp. 155-172, con discussione della bibliografia specifica. Si veda anche Dante e la cultura fiorentina, a cura di Z.G. Barański, T.J. Cachey Jr e L. Lombardo, Roma, Salerno Ed., 2019, specie pp. 101-132.

[10] Da confrontarsi anche l’uso del nome proprio nel sonetto Una donna vechia, teribel molto di Niccolò de’ Rossi, in cui si legge che “l’altrier mi clamò: Nicolò de’ Rossi, / doctor de leçe no, ma paço e stolto…” (ed. Brugnolo, 166, 3-4), con identificazione indubitabile dell’autore. Quanto all’impatto onomastico di “Durante”, alcune delle considerazioni precedenti potrebbero essere declinate in modo diverso se ipotizzassimo che il testo era destinato a circolare in un ambiente che conosceva bene la Rose: ma questo non si dà per Bologna o Firenze alla fine del Duecento. Né basterebbe a far considerare nome d’autore sicuro “Durante” l’ipotesi dell’esistenza di una didascalia iniziale esplicativa, comunque non riportata nell’adespoto manoscritto di Montpellier: al di là dell’impossibilità di verifica, resta il fatto che la strategia espositiva adottata genera dubbi proprio sulla coincidenza effettiva tra autore reale e personaggio-narratore, mentre l’originale non ne poteva produrre alcuno.

[11] Quanto alla presenza di lessico dantesco nel Fiore, come per esempio nel caso di “burella”, già esaminato e ricordato ancora da Berisso, art. cit., p. 255 e n. 53, personalmente ritengo che non sia impossibile pensare a inserti o riscritture di un testo della fine del Duecento lasciato incompiuto, e che è stato poi rimaneggiato (ma senza una rifinitura definitiva) dopo la divulgazione dell’Inferno dantesco. L’ipotesi, ancorché di difficile dimostrazione (stante la tradizione a testimone unico), riuscirebbe a dar conto di intersezioni singolari come appunto quella sopra menzionata. Simile potrebbe anche risultare il caso dell’allusione, ma introdotta quasi come una zeppa, al tradimento di pugliesi in Fiore, 49, 3, che dovrebbe presupporre Inf. XVIII 16-17 (non proprio necessario, come è stato già notato, però antecedente molto calzante): si veda il contributo di Pasquale Stoppelli in Lopereseguite, cit., pp. 255 s., anche per altra bibliografia.

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